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La recensione di Luciano Lucignani
 

Dove Sant'Ignaro diventa cameriere
San Miniato è, per il teatro italiano, quello che Avignone è per il teatro francese. Come Avignone, San Miniato ospita soltanto manifestazioni estive, all'aperto; come Avignone, San Miniato offre periodicamente il suo spettacolo ogni anno; come Avignone, San Miniato ha iniziato la sua attività teatrale in questo dopoguerra, e come da Avignone così da San Miniato gli spettacoli vengono portati poi in giro, nell'autunno e nell'inverno. C'è una sola differenza, ma importante: ad Avignone Jean Vilar rappresenta opere di qualsiasi tendenza e significato, purché siano adatte allo spettacolo all'aperto, a San Miniato invece si da soltanto un teatro di carattere religioso. Questa differenza, dicevamo, è importante per stabilire il carattere delle due manifestazioni, ma non deve assolutamente far pensare che noi deploriamo l'iniziativa dell'Istituto del dramma popolare; anzi, vorremmo dire quasi che programmi così precisati ci interessano, ci piacciono, perché contribuiscono a chiarire il panorama della vita teatrale, ci offrono motivo di riflettere su un aspetto del teatro contemporaneo che non può assolutamente dirsi secondario. Inoltre bisogna dar atto ai dirigenti di questo istituto di non concepire il teatro religioso come un teatro agiografico, apologetico, ma anzi di accogliere anche il problematico, purtroppo, a volte, anche il generico. Che poi, una tale decisione di chiarezza comporti anche dei limiti, è ovvio; che certe opere, se non fosse stato per il loro valore di agitazione di problemi religiosi sarebbero (e con utilità) probabilmente rimaste lontane dalla scena, è naturale: sembra poco, un'opera all'anno, ma nelle attuali condizioni del teatro di prosa, non è sempre facile trovarla. In dieci anni «le feste del teatro» di San Miniato ci hanno fatto assistere a drammi di Thomas Stearns Eliot (Assassinio nella cattedrale), di Georges Bernanos (L'ultima al patibolo, cioè I dialoghi delle Carmelitane), di Gilbert Cesbron (È mezzanotte, dottor Schweitzer!), di Graham Greene (Il potere e la gloria), delle quali non avremmo certo voluto differire la conoscenza. Altre invece, come Yo, el Rey di Cicognani, come Giovanna e i giudici di Maulnier, o come L'aiuola bruciata di Betti, non ci sono sembrate molto utili; giustificate, cioè, solo da quella sede e da quegli intenti. Ma ci sono stati anche spettacoli esemplari, come alcuni di Costa, o di Squarzina, e quello di Strehler: il bilancio, a nostro avviso, è largamente positivo.
Quest'anno, decima «festa del teatro», è stato dato un dramma di Diego Fabbri, Veglia d'armi, che ci dicono sia stato scritto espressamente su ordinazione della Compagnia di Gesù e allestito con la loro consulenza, diciamo così, ideologica. È un fatto insolito nel teatro italiano, che merita d'esser rilevato, e, a parte ogni differenza d'idee, anche apprezzato. Fabbri è indubbiamente il « leader » di questa corrente problematica della nostra letteratura drammatica, ma anche uno scrittore, possiede cioè una tecnica, ha delle idee sue, una sua concezione dei fatti e delle cose. Questo fa sì che Veglia d'armi risulti un'opera interessante anche con i molti gravi difetti che presenta: si tratta, praticamente, d'una lunga discussione sui problemi che si pongono alla società contemporanea, e del compito dei gesuiti di fronte a questi problemi. È una riunione clandestina, in un grande albergo europeo, alla quale partecipano rappresentanti di tutti i paesi: c'è un negro, un americano, uno spagnolo, e c'è anche un gesuita venuto dai paesi, per usare la terminologia dell'autore, d'oltre cortina. Fin qui la problematica non s'allontana dal realismo, tutto ciò di cui l'autore ci parla, è probabile; ma dove non lo comprendiamo, e dove non siamo d'accordo con lui, proprio dal punto di vista tecnico, è quando egli introduce, in veste di «maìtre» dell'albergo, niente meno che Sant'Ignazio, il quale da i suoi consigli agli agitati spiriti in discussione. Le possibilità d'una coesistenza religiosa fra Occidente e Oriente, il rifiuto della politica di corridoio offerta — certo non a caso — dal rappresentante spagnolo, fanno di questo dramma, bello o brutto che lo si voglia giudicare (e sarebbe impossibile dirlo, forse la cosa più giusta è che non si tratta di un dramma vero e proprio) un documento attuale, interessante, sul quale ci piacerebbe poterci soffermare più a lungo. Certo un dramma simile non può piacere molto alle gerarchie cattoliche, e le posizioni che vi sono enunciate sono certamente assai distanti da quelle della politica vaticana o democristiana. Anche per questo sarebbe utile che questo spettacolo non finisse a San Miniato e che fosse portato in giro per l'Italia; anche perché lo spettacolo diretto da Orazio Costa non è spiacevole e l'interpretazione di tutti gli attori particolarmente efficace.
Luciano Lucignani, Vie Nuove, Roma, 15 Settembre 1956




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