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Stampa diocesana novarese - La recensione di Fornara
 

I santi dubbi dell'uomo di ieri, di oggi e di domani
Giovedì 22 luglio. Sulla mitica piazza del Duomo di San Miniato al Tedesco, là dove scorre - ma a valle - l'Arno pigro e ricco di umane immondizie, abbiamo partecipato alla 53" Festa del Dramma Popolare, che, ogni anno, ci dona l'incontro con un testo, che ci indichi un eventuale spiraglio, senza trombe né campane suonate, alla riflessione, che rechi alla redenzione comunitaria ed alla conversione personale.
A darci questi spunti è stato quest'anno Cavaliere di ventura, un testo intellettualmente forte, psicologicamente forse troppo difficile, pensato ed offerto da Roberto Cavosi, un teatrante - prima come attore, poi come autore - nato a Merano, in Alto Adige, quarant'anni fa.

TENTIAMO UNA STORIA...
Cavosi ci fa qui incontrare con Fortebraccio, soldato di ventura, mirabilmente interpretato da Virginio Gazzolo. Egli, per un momento, lasciati lo scudo e la spada, vorrebbe proporsi i problemi dell'uomo: "i dubbi, i limiti, la paura e la solitudine ".
Si ritrova, allora, immerso di colpo in un mondo di fiaba, perché, vorrebbe dirci, il mondo vero è solo quello della sua spada, cioè della violenza, della truffa e del terrore. Infatti, i due becchini, nell'opera sanminiatese Massimo Di Michele e Gian Luca Farnese, veri rappresentanti in toto della umanità più bassa, sono un poco corrotti, amabilmente lazzaroni, onestamente ubriaconi, notevolmente leccapiedi: ed abbiamo usato volutamente strafalcioni loro attribuiti da Cavosi, per indicarli direttamente nel loro linguaggio, che non è, anche se vorrebbe esserlo, di guitti, ma, piuttosto, di orecchianti farabuttelli, assolutamente privi di una loro moralità e di una loro personalità, che non sia quella dei soldi e del vino.
In questa cornice di un quadro, che potrebbe essere drammatico, ma anche terribilmente mistificatorio, perché ironico (non per nulla Cavosi confessa di amare l'incisione di Albrecht Dürer "Il Cavaliere, la Morte, il Diavolo", degli Uffizi di Firenze), in questa cornice Fortebraccio, cioè l'umanità, si ritrova a contatto con due essenze labili ed immateriali: il Ricordo, da Carla Fracci interpretato come attrice e come danzatrice, con una bravura ed una leggerezza, che le hanno meritato applausi a scena aperta, da dividere meritatamente con il suo partner, il giovane Riccardo Massimi, un Principe del Dubbio levissimo, quasi immateriale, ma insieme forte, come si conviene alla donna ridotta a Ricordo, sia pure d'Amore; e con la Fontana, che, interpretata con saggezza da Paola Roscioli, parla e parla, ma, soprattutto, vorrebbe donare.

DUE (O TRE) MOMENTI
Eccoci, dunque, nel mondo della simbologia medievale, in un cimitero ai piedi del Castello del Principe del Dubbio (ed i personaggi shakespeariani di Ofelia e di Amleto non sembrano davvero tanto lontani), nel mondo, cioè, della fiaba, meglio, della leggenda, meglio ancora, della tregenda fumosa e nebbiosa, quasi un quadro di una Scozia lontana nei luoghi e nei tempi.
Fortebraccio si incontra con la Morte e con il Diavolo, quest'ultimo impersonato da un vivacissimo stupendo capronesco saltellante Maximilian Nisi, la prima da una fredda dottoresca e sentenziante Angela Cardile, ferma ad un latino falsamente medievale, perché orecchiante ed inesistente, proprio come la Morte.
Questo trittico - Avventuriero, Morte e Diavolo -, da Cavosi espressamente rubato dalla incisione di Dürer, questo trittico, che poi Cavosi non teme di chiamare addirittura "combriccola ", non conclude di fatto nulla, anche se manifesta di essersi imbattuto, nel corso della storia, nell'Amore, nella Vita, nell'Umanità. Difatti, Ofelia- Ricordo (la stupenda Fracci, naturalmente) risorge davanti al Cavaliere sotto forma di una Rosa, che "cerca il sole, cerca il cielo, cerca quel riscatto, che in vita le è stato negato". Fortebraccio, cioè l'uomo, preso da mille passioni, per la prima volta scende in se stesso, perché è il momento, "nel tuo cammino di uomo, nel quale fermi i pensieri e per la prima li scopri ad osservare le gocce d'acqua, che, lente, dopo un temporale, accarezzano la corteccia bruna degli abeti, o la polvere chiara, che nei pomeriggi assolati, ricopre l'erba sui cigli delle strade".
Si direbbe che è giunto il momento della svolta definitiva, o di una vita (la conversione cristiana) o, addirittura, di un'epoca (la trasformazione violenta del mondo, di cui parla l'Apocalisse al cap. 9, con i tre cavalli incaricati di "uccidere un terzo degli uomini", cui Cavosi unisce il quarto angelo di Apocalisse 10, 1).
E tutto questo per aver recuperato i grandi sentimenti dell'Amore e della Vita, attraverso il Dubbio, fino a giungere alla preghiera alla Divinità; "Pregate con me ".

PESSIMISMO, COME REALISMO?
Purtroppo, a trarre Fortebraccio dal momento della riflessione - che viene così accostata alla debolezza - interviene l'Agrimensore, cioè, non il sentimento ma il calcolo, che gli cancella ogni dubbio. La Rosa del Ricordo e dell'Amore è recisa, e la vita, ma questa volta con la minuscola, riprende nella sua normale oscenità, per cui i Becchini possono giustamente dirsi, dopo tanta fantasia, tanta fiaba, tanta leggerezza, tanta poesia, tanta umanissima fede, possono giustamente dirsi: "E ' dura oggigiorno la terra!", "La spaccheremo a colpi di piccone ", anche perché il Cielo "è di per sé completamente terso... e come che serio ".
Così Cavosi, con una "liturgia laica ", come egli stesso ha voluto definire il suo lavoro, ci riporta alla nostra riflessione, di singoli e di comunità. Possibile, cioè, che in questo povero mondo cristiano, o, come dice qualcuno, post-cristiano, abbiano a trionfare solo il calcolo, la violenza, la prepotenza, e mai l'Amore, la Fede, e, quindi, la Vita?
Se da un lato non siamo in grado di dare una risposta per conto dell'Autore del testo di questo Cavaliere di ventura, dall'altro accettiamo volentieri la sua provocazione, specie in questa imminenza del Grande Giubileo. No, la cattiveria, vestita da calcolo e da violenza, non trionferà, perché l'uomo sarà sempre uomo, ma, soprattutto, perché ha ormai immagazzinato definitivamente nella sua mente e nel suo cuore il messaggio evangelico della Risurrezione di Cristo, che poi diventa icona della risurrezione dell'uomo, proprio come quello di Ofelia, che è poi quella della Rosa.
Certo, il pessimismo cristiano che ritroviamo, ad esempio, nello sconosciuto autore della Imitazione di Cristo non è del tutto fuori luogo, però con la implicita o esplicita affermazione che, come in Cristo, dopo la morte, a trionfare sarà la Vita nella sua risurrezione. Per cui l'uomo sarà sempre uomo, con tanti tanti lati oscuri, almeno pari ai tre cavalli di Apocalisse 9, ma anche con la grande voglia di Amare e di Essere Amato: e non è forse questo il grande messaggio cristiano di Matteo 22,38: "Ama il tuo prossimo come te stesso"?

QUALCHE MA SULLA REALIZZAZIONE
Tutto questo lo abbiamo rubato, sia alla rappresentazione sia al testo pubblicato. Ma non si creda che tutto sia filato così liscio.
Anzitutto, il testo di Cavosi era per sua natura difficile, contorto, esistenzialista (parola dell'Autore), per cui la visione non è stata né lineare né facile. Aggiungi un certo amore per i guitti, specie nel Diavolo di Maximilian Nisi; un uso corretto, ma forse eccessivo, della musica di Dmitrij Sciostakovic; l'amore per i fumi, tipico di un certo Zanussi; una scenografia praticamente immobile, che richiamava direttamente Carmelo Bene; l'utilizzo del balletto, che, sia pure con la sua sublimità, ha prolungato la rappresentazione in maniera inattesa. Tutto questo è stato, a nostro sommesso avviso, più di danno che di vantaggio allo spettacolo, o meglio alla sua leggibilità.
Che se gli applausi alla fine sono stati forti e convinti, lo erano per la bravura degli attori, in particolare di Gazzolo, della Fracci e di Nisi, più che per il testo e per i suoi assunti.
Per cui dobbiamo proprio ritenere che, almeno in questa edizione, non si è trattato di "dramma popolare", anche se si è trattato di "teatro dello spirito ", sia pure in salita, perché rovesciato nella sua progressione evocativa: dal dubbio all'amore, per ritornare alla certezza di chi è obbligato "a decidere senza mai darsi la possibilità di avere dei dubbi". Eppure, è proprio dal dubbio che partono l'Amore, la Vita, e la Fede.

BARTOLO FORNARA, Stampa diocesana novarese, 31 luglio 1999




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