La recensione
La Fracci a San Miniato lascia il tutù e recita nel «Cavaliere di ventura»
Di quanti ingredienti si deve disporre per confezionare una favola metafisica che, a teatro, si alzi come una spada lucente? Non c'è bisogno né di rute né di sangue di lupo, ma di un elemento volatile e, per sua natura, imponderabile: lo stato di grazia dell'autentica ispirazione. È quella che, ahimè, manca a Roberto Cavosi che, in questo Cavaliere di ventura, andato in scena a San Miniato tra la stupita acquiescenza del pubblico, allinea un ricchissimo catalogo di citazioni e contaminazione desunte con molta libertà da quella «Bibbia» dei laici (come lo definì Walt Whitman) che è l'Amleto.
Si parte dal calco dell'eroico Fortebraccio, visto un po' come Orlando paladino teso a raddrizzare il declinante prestigio della cavalleria all'altro Cavaliere, protagonista dell'incantevole Féerie di Italo Calvinci. E poi, con buona pace del celebre titolo di Mario Praz (La carne, la morte e il diavolo), si giunge al rifacimento barocco e funerario compiuto da Garcia Lorca nel Pubblico, sulle orme di Shakespeare.
Purtroppo, come accade di frequente, questa accolita disparata di materiali non si coagula nell'incandescente crogiuolo della forma drammatica. Il pastiche, che poteva essere spassoso fosse stato accompagnato dal correttivo indispensabile dell'ironia, si risolve in un guazzabuglio, aggravato, tra l'altro, dall'impaccio di epiteti e frasi latine; che, per rispetto delle fonti, sarebbe meglio dimenticare. Alle prese con questa eterogenea accozzaglia, Beppe Menegatti ha pensato di aggirare il problema rifacendosi manieristicamente al mondo perduto di un grande regista, Aldo Trionfo, il cui ricordo e la cui influenza sono ancora assai vivi tra noi. Così le citazioni spettacolari, dalle bambole esangui del Re Giovanni ai testi giganti del Tito Andronico, si sovrappongono a quelle del testo generando una confusa parodia di stili.
Alcune geniali intuizioni del regista scomparso (l'assolo iniziale di Ofelia, ombra tra le ombre, davanti al catafalco come nella Margherita Gauthier della Moriconi) si perdono nel marasma.
Per fortuna l'atmosfera è ravvivata dalle belle prove di un'eccellente compagnia dove primeggia il distacco critico di Virginio Gazzolo, l'allegria contagiosa del Diavolo di Maximilian Nisi e l'impatto caricaturale di Angela Cardile (la Morte). In quanto a Carla Fracci che nel finale ci regala la sua trepida voce di gola, e che nei suoi brevi interventi di danza evoca con commossa partecipazione la sua antica e bellissima Giselle, ci auguriamo di rivederla presto in ben altro contesto.
ENRICO GROPPALI, Il Giornale, Milano, 24 luglio 1999
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