Un dramma avventuroso di Elena Bono racconta la misteriosa fine dei Templari
La coraggiosa e poliedrica Elena Bono (classe 1921) che da anni persegue una linea singolare nella drammaturgia italiana privilegiando la commistione dei dialetti e delle lingue, dal tedesco al francese passando per il latino, ci regala per la cinquantaseiesima Festa del Teatro di San Miniato un testo che si discosta dalle mode correnti materiato com'è delle ossessioni personali dell'autrice e del suo sconfinato amore per la storia. Dopo Le spade e le ferite che due anni fa, sempre sul palco di San Miniato, evocò Pier delle Vigne e la politica di Innocenzo III, la Bono ora affronta nei Templari l'annosa questione della responsabilità della Chiesa nel genocidio del famoso ordine religioso. Quando il braccio armato della lotta agli Infedeli nella custodia del Santo Sepolcro all'epoca delle Crociate fu sterminato, per intervento diretto di Clemente V, agli albori del XIV secolo. E ci trasporta di peso alla primavera 1310 quando la caccia ai Templari culminò nella cattura del Gran Maestro Jacques de Molay, giustiziato in un'isoletta sulla Senna.
Da acuta investigatrice della storia, Elena Bono immagina che un traditore, annidatosi tra gli ultimi Templari, ne abbia provocato prima l'arresto e poi la detenzione in un torrione sperso nell'Agro Romano. E che il profittatore della delazione, chiamato l'Uomo Nero in un implicito rimando all'Eremita degli Arcani Maggiori, la carta più ambigua e misteriosa della divinazione nei tarocchi, prometta salva la vita al Magister dell'Ordine organizzando l'evasione dello sparuto gruppo dei superstiti a patto di impadronirsi dei loro segreti. Che, in primis, riguardano la trasmutazione alchemica dei più vili metalli nell'oro promesso dal compimento della Grande Opera. Ed ha anche esplicitamente prescritto, come fedelmente accade nella scenografia di Daniele Spisa, che l'azione si biforchi nella zona alta dove discettano Uomo nero e Magister e nella zona bassa, quella degli altiforni, dove il povero cavaliere Amadeus von Waldenburg agonizza tra le misere cure di due vassalli: la Gisa, una ragazza perduta, e Rocco, il factotum dei cavalieri che, imprigionati nelle segrete, si preparano santamente al martirio. È un bello spettacolo quello di Pino Manzari ispirato ai canoni di un teatro nazionale di forte suggestione, in una voluta dicotomia dove i personaggi popolari, nella loro spregiudicata ingenuità, si oppongono allo spregiudicato machiavellismo dei potenti. Tra gli interpreti, Massimo Foschi, che è Rocco, nel tratteggiare un ruolo da vilain si ispira al Passator Cortese, mentre Umberto Ceriani da grande giocoliere del verbo tramuta le parole in fatti sul pallottoliere della storia.
Enrico Groppali, Il Giornale, Milano, 7 agosto 2002
|