Un Uomo Nero tra i Templari
La piazza del Duomo di San Minialo (Pisa) ha ospitato, per la sessantaseiesima edizione della sua Festa del teatro, la consacrazione scenica di una tragedia partecipe di quel "teatro dello spirito" che dall'immediato dopoguerra contrassegna un itinerario d'arte attento ai grandi temi della Cristianità. Elena Bono, commediografa e poetessa, ha incentrato la sua ultima opera drammaturgica sulle struggenti vicende dei Templari, monaci, soldati inizialmente difesa e protezione dei pellegrini in Terrasanta, e poi radicatisi in mezza Europa con aperture sociali alla lunga invise ai feudatari e ai banchieri. Lo scioglimento del loro Ordine a opera di Papa Clemente V, le voci infamanti fatte propalare dagli emissari del sovrano francese Filippo il Bello e, infine, l'accusa di eresia emessa nei loro confronti costituiscono l'elemento centrale di una libera ricostruzione drammaturgica che procede su due solchi narrativi. L'ottuagenaria autrice ha ambientato la tragedia su una torre della costa tirrenica, adibita da un lato a carcere di un gruppo di Templari e dall'altro a ricetto di una bolgia di malfattori, pirati saraceni, banditi. La regia di Pino Manzari utilizza la scenografia essenziale di Daniele Spisa per riservare il piano alto di una stilizzata struttura metallica al dialogo serrato, e concettualmente elevato, tra il Precettore dei Templari e un misterioso Uomo Nero, che si rivelerà il cinico figlio naturale di un detestato sovrano. Mentre l'Uomo Nero tenta di strappare al suo interlocutore i segreti dell'Ordine, al pianterreno dello stesso edificio si consuma l'agonia di un novizio di illustre casata, che aveva tentato di resistere con le armi agli sgherri sopraffattori. La sua atroce fine tocca il cuore di una ragazza di vita riscattata dalla purezza di un giovane tanto diverso da quanti ha fin qui frequentato. Ma l'ombra della morte dello sventurato non lascia indifferente nemmeno un infido scudiere dei monaci, soldato pronto al tradimento quanto infine incapace di sottrarsi alla recita della "commedia dell'investitura" invocata dal neo-cavaliere. L'invenzione più interessante del serrato dramma consiste nell'accompagnare le evocate vicende trecentesche con l'adozione di un linguaggio alto (latino, francese, italiano colto) per la sfida dialettica tra i due nobili e di una vulgata plebea, messa in bocca al capocarceriere Pocapaglia; all'infido scudiero Rocco di Sezze e alla dolente Gisa - oltre che al piccolo Ali incapace di distinguere tra Cristo e Allah uno strepitoso Massimo Foschi dà rozzo risalto al risentito servo dei Templari e al suo odio del mondo, la partecipe Maria Elena Camaiori conserva toccanti accenti a Gisa, il settenne Federico Orsetti conferma nel tratteggio di Alì la teatralità innata dei bambini. Se dal punto di vista concettuale al centro della tragedia si colloca la sottile battaglia dialettica tra l'Uomo Nero, in cui giganteggia Umberto Ceriani, e la sottigliezza difensiva che Marco Spiga presta al Precettore, l'elemento più spettacolare emerge alla fine quando i potenti trovano in qualche modo un'intesa sacrificando nell'incendio della torre tutti i possibili testimoni della concordata evasione, compreso il mellifluo capocarceriere cui Gabriele Carli dà inquietante risvolto. A simboleggiare le fiamme è un rosso drappo svolazzante che accompagna il crepitio del fuoco con la voce.
Gastone Geron, Gente, 22 agosto 2002
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