Dietro le maschere inquietanti del nulla
Una parola che serva, una parola che salva. Una parola che diventa azione e ci ricorda che la Parola pronunciata all'inizio dei tempi è il vero atto formativo. Fra parola scritta e parola che diventa vita si situa il mistero del teatro, che quando si tuffa nel Medioevo trova una linfa particolare. Quel mondo, con la sua incredibile complessità, si ostina a non poter essere dimenticato: ci affascina. Ma è un mondo che tiene in scacco noi posteri, abituati a vivere in realtà irrimediabilmente più semplici e compatte, almeno per chi vive in superficie.
È all'interno dì questi presupposti che si è mosso il regista Pino Manzari per portare in scena sulla storica piazza del Duomo di San Miniato I templari di Elena Bono, «obbligato — per sua stessa ammissione — a qualche ardua riflessione: praticare un'arte comporta sempre più un duro confronto con la vita, perché l'ancoraggio sicuro di ogni attività estetica è il fare i conti con l'esistente, altrimenti può accaderci di diventare le prime, ingenue vittime inconsapevoli, dei miti sottesi ad ogni fare teatro.
Manzari, allievo e collaboratore di Orazio Costa Giovangigli, insieme al quale nel 1980 firmò per la Festa del teatro lo stupendo Al Dio ignoto di Diego Fabbri, ha esplorato, con l'autrice, un arcipelago variegato, "frutto velenoso di volontà, di potenza e di frustrazioni spiritualiste, di fughe nell'irrazionale, di deliri e allucinazioni estranei allo spazio e al tempo, maschere inquietanti del nulla", e senza mai smarrire la rotta.
Elena Bono, una delle voci più autorevoli del teatro contemporaneo italiano, autrice anche di romanzi e di poesie, da parte sua ha sapulo «contrapporre a queste favole suggestive e inquietanti,- i più demitizzanti dei miti, i racconti della grande tradizione ebraica e cristiana, amorosamente raccolti e radicalmente realisti, testimoni di millenni di storia, concatenazione organica che comprende in se l'alfa e l'omega del tempo e dello spazio». Così la tragica vicenda storica dei Templari «ci fa approdare a comprendere — spiega Manzari — quanto sa di sangue ogni mito».
L'azione del dramma si svolge nel 1310, mentre è in atto la guerra di Filippo il Bello re di Francia contro i Templari, l'Ordine dei monaci-soldati che si unirono, dopo l'inizio delle Crociate, in una comunità religiosa vincolata dai voti di povertà, castità e obbedienza e con l'esplicito obbligo di difendere i luoghi santi e di offrire protezione armata ai pellegrini da Giaffa a Gerusalemme. Furono chiamati Templari perché trovarono alloggio nel palazzo reale, il cosiddetto «Tempium Salomonis». Nel loro stile di vita si uniformarono ai canonici regolari e trovarono l'interesse di Bernardo di Chiaravalle: con il suo aiuto fu elaborata nel Sinodo di Troyes del 1128 una regola religiosa che il patriarca di Gerusalemme completò nel 1130. La propaganda di Bernardo procurò all'ordine una grande quantità di aderenti.
Un paio di secoli dopo, nel 1312, fu decretata la soppressione dell'Ordine "perché godeva di poca buona fama ed era divenuto inutile". Alla soppressione si arrivò per volere di Filippo il Bello, uomo senza scrupoli, freddo calcolatore, in sostanza agnostico, che conosceva solo una cosa: la potenza nazionale. In base ad un «elaborato castello di menzogne e di mezze verità equivocamente combinatesi, come afferma lo storico Franco Cardini, spinto unicamente dalla bramosia di impossessarsi dei beni dell'Ordine per rimpinguare le proprie casse, il monarca francese fece arrestare tutti i Templari (1307) e intentò loro un processo per eresia.
Il testo scelto per questa LVI edizione della Festa del Teatro è ambientato in una torre-prigione di San Felice del Circeo. La scena è divisa in due parti. Nella stanza in cima alla torre, si svolge il dialogo tra un misterioso Uomo Nero, figlio illegittimo di re, e il Precettore dei Templari. L'Uomo Nero vuol conoscere i segreti dell'Ordine e spinge il Precettore al tradimento in cambio della libertà. Ma il nobile, nemico giurato di tutti coloro che puntano a cambiare l'ordine costituito, non esiterà ad eliminare i testimoni scomodi del suo operato. Nella parte inferiore della torre, nella prigione, giace il novizio templare Amadeus von Waldenburg, ferito a morte per aver tentato di resistere da solo all'arresto dei confratelli.
Se nelle stanze superiori domina il linguaggio «alto» della diplomazia e della politica, infarcito di latino e di francese, nella parte inferiore della scena è invece il dialetto arcaico dell'Italia medievale a dominare. Ed è tutto un movimento e un esternarsi di sentimenti. La Gisa, donna di facili costumi ma dotata di una sua pulizia interiore, si è innamorata del giovane Amadeus, al quale resterà vicina fino all'ultimo, morendo con luì. Questo sentimento suscita l'ammirazione dello scudiere templare Rocco da Sezze, che è disposto anche a tradire pur di salvarsi, ma che si impietosisce di fronte al dolore della Gisa giungendo perfino ad inscenare una falsa "investitura" per compiacere il delirio del novizio morente.
Tra le fiamme che concludono il dramma, di fronte alla morte, Rocco rivela appieno la sua pochezza, mentre risalta la forza d'animo della Gisa, che accetta la morte quasi come una liberazione. Tra i bagliori si ode la voce di Alì, il bambino turco raccolto e allevalo dai Templari, che con la sua innocenza e la sua vivacità ha reso meno cupe le scene del carcere ed ora, «acutamente, dominando tutti i clamori», invoca: «Jesù... Jesù... Allah... Allah... Là ila ili Allah!».
Il dramma di Elena Bono, che torna a San Miniato dopo solo un anno di intervallo (cosa mai successa in passato nemmeno per Eliot), ripropone e attualizza, come nel 2000 con "Le spade e le ferite", l'eterna lotta per il potere è quella che il nuovo direttore artistico della neonata Fondazione del dramma popolare, Salvatore Ciulla, definisce «la natura felina del gioco politico. Ma c'è anche la pura idealità dei migliori, la ricerca della verità, la possibilità del riscatto anche delle creature più degradate, il sacrificio degli innocenti». Il tutto attraverso una solida drammaturgia unita ad un magistrale uso della lingua. E per un testo tutto giocato sulla parola era obbligo mettere insieme attori di grande livello, a partire da Massimo Foschi (Rocco da Sezze), a San Miniato già eccellente interprete di altri lavori, e da Umberto Ceriani, che vanta un lungo sodalizio col Piccolo Teatro di Milano dov'è stato diretto da Strehler e Missiroli e che in questa occasione ha dato vita al personaggio negativo dell'Uomo Nero che trova la sua grandezza nell'intelligenza e netta capacità dialettica fuori dal comune. E con loro particolarmente bravi Maria Elena Camaiori (una giovane Gisa all'altezza dei suoi titolati compagni dì scena) e Marco Spiga (Precettore Templare). Davvero, piacevole la caratterinazione, soprattutti per quanto riguarda la lingua, del carceriere Pocapaglia interpretato da Gabriele Carli. Un piccolo grande successo personale per Federico Orsetti, 7 anni, nelle vesti di Alì. Completano il cast Mattia Battistini (Amadeus von Waldenburg) e Silvia Pagnin (La Tota). Scene di Daniele Spisa e costumi di Antonella Zeleni. Le musiche originali sono di Roberto Tofi eseguite dai vivo da Sophie Elert (soprano) e dal gruppo di musica medioevale Timbrel con i cantori del Coro «Monsignor Cosimo Balducci» di San Miniato.
ANDREA FAGIOLI, L'Osservatore Romano, Roma, 26 luglio 2002
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