Il diavolo a San Miniato
Come sente parlar di sé, ci mette lo zampino - che poi è un piede bisulco, da invalido - sì che la gente pigli in burletta la sua esistenza. È persona modesta, ritirata, il diavolo. (Tanto che dei teologi coglioni si son messi ora a negar l'inferno: ma per chi lavoran quelli lì?) Il testo presentato alla XLVII Festa del Teatro di San Miniato, una favola apologo sulla troppa furbizia del signore delle mosche, è opera giovanile di Derek Walcott, il luminoso poeta lirico che il Nobel del '92 ha additato al gran pubblico. Solo apparentemente "leggero", e comunque tutt'altro che carnevalesco. La realizzazione di Sylvano Bussotti è stata giocondamente (diabolicamente) evasiva - quasi una resa dei tropici da avanspettacolo - quando non del tutto gratuita.
Si prenda la scenografia. Non si capisce bene perché, se lo scritto prevede una capanna-capanna, ci dobbiamo ritrovar davanti un nido colossale, con tre uova che, a paragone, Jurassic Park è Lilliput. L'elefantiasi fa una frittata del simbolo e tratta da sordo mentale lo spettatore. Ma da noi, si sa, "è del regista il fin la meraviglia", e val più l'effervescenza della trovata che la responsabilità di un giusto adempimento. E i tre fratelli, che avrebbero dovuto essere negri? (A parte il mascherino morchioso di Ti-Jean: perché lui sì e gli altri no?) Per il timore di "cadere nel pittoresco caraibico" - così Bussotti - eccoli candeggiati a visi pallidi.
Altra vittoria del diavolo: il perfido latifondista bianco, una delle sue due incarnazioni, perde così ogni tratto di colonialismo (l'opera è degli anni Cinquanta).
Musica e balletti canori. I giovanissimi interpreti si son dati parecchio da fare, visto che in Italia a un attore non si insegna a cantare e a ballare, né a scandire con naturalezza dei versi che siano versi (del resto son ben pochi i poeti che li sanno tuttora scrivere). Anche al bravo Girone - una prestazione, la sua, in altorilievo rispetto alle altre - l'ingranaggio esecutivo non ha lasciato molto spazio. Ora Tanker, il musicista, conosce fin troppo bene il suo mestiere di artista di spettacolo. Le sue note, uno zucchero antillano, hanno melassato l'azione drammatica in music-hall, invece di esaltarne la cupa e gocciolante forza mitica. Proviamo a figurarci cosa risulterebbe questa favola paganamente cristiana, pervasa dalla muffida e ansimante presenza del diavolo, restituito come una cadente divinità boschiva, se fosse coniugata con musiche più "novecentesche", invece che con melodie Alpitur: queste sì, sugose di pittoresco.
Eppure certi spunti erano eccellenti. Per es. il Bolom, il Nonnato, spirito rancoroso verso la vita: con la sua vocetta acida, in una vestitura amebica, ci appare nella sua orrendezza di viscere parlante. Ma tutta la sua sostanza tragica scoppia infine in una risata goliardica (ah gli applausi stravaccati del pubblico!) allorché esso è reincarnato nel fluire agonico del vivente: puf!, balza fuori un bamboccione alla marinara, a "cartoneggiare" tra salti e berci che, lo confesso, mi han fatto sospirare di simpatia alla madre scellerata... Ma forse i risultati sgangherati di tanta drammaturgia - specie in Italia - non bisogna gravarli tutti sulle spalle dei singoli realizzatori. E nella stessa disposizione d'animo del pubblico il peccato originario, che tantopiù rimpiaga quando ci si trova davanti a un'opera di segno spirituale, quale il benemerito Dramma Popolare da decenni si sforza, anche erniosamente, di promuovere. La gente a teatro ci va per divertirsi, ecco la diabolica verità, e sul "sacro fuoco" ci si cuoce quel minestrone che ormai riversa a cateratta il convento TV alle masse nottivore, tutt'occhi fosforosi d'idiozia. Divertirsi! Verbo che sa moralmente di scarica-vescica, sempre aborrito dalla cultura religiosa, e che oggi la fa da padrone nella nostra, a ciclo continuo, la più sbracata e pretenziosa dalla fine dell'impero romano. Tranne poche, vertiginose eccezioni, questa è la onniprassi schermo-scenica: che ci avviluppa tutta la vita. Il teatro vero - conoscitivo, fondato su di una parola epifanica - si è quasi del tutto esaurito nel '600, quando un palcoscenico, sia pure scricchiolante e piattoloso, era il corrispettivo laico del presbiterio marmoreo.
E quando ci arriva dal Terzo Mondo (mi sentisse Walcotc, con la sua satura e raffinatissima cultura inglese e non solo questa: ma gl'imperi - è tema ricorrente nei suoi versi - qualcosa hanno pur lasciato oltre le tombe inerbate dei loro addetti!), ci arriva, dicevo, un mito verminoso di potenze oltremondane, una specie di Bosch ma di una simbologia del tutto aperta e cordiale, che facciamo noi ometti tardoccidentali? Per la paura ci ridiamo sopra. C.v.D.
MARCO CIPOLLINI, Erba d'Arno autunno 1993
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