Dall'«Inferno» di Strindberg alla pace di San Miniato
Ci voleva proprio un Ente come l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato — quello che da più tempo in Italia allestisce spettacoli in estate, evidenziando il Teatro spirituale, dal lontano 1947 con 44 spettacoli in altrettanti anni — per fare conoscere in Italia un'opera come questa destinata, forse, a restare una misteriosa casella vuota nella teatrografia di August Strindberg. Uno di quei testi che possono raggiungere il palcoscenico solo se ricorrono degli elementi diversi da quelli di un teatro basato sulla concorrenza d'obbligo o, peggio, ad una linea che sia il pedaggio dovuto a quelle forze e a quelle iniziative che ne hanno permesso la realizzazione. Può anche essere che La grande strada maestra non sia un'opera perfetta: è il frutto ultimo di un uomo stanco e malato che ha bruciato tutta la sua vita alle angosce, alle battaglie, alle contraddizioni, pubbliche e private che sempre lo hanno caratterizzato. Siamo nel 1909 e, già con Verso Damasco, si sono sgretolate le mura delle pareti di quelle stanze soffocanti degli interni borghesi, grondanti sesso e peccato, del suo «teatro da camera». Gli spazi diventano ora quelli aperti e arditi delle «Stazioni» del teatro medievale, riemergono dalla memoria le letture lontane di Dante, di Goethe, di Schiller, ma la struttura rimane sempre la stessa: l'appassionata difesa della propria vita e dei propri ideali, in quell'autobiografismo che sempre ha accompagnato l'autore, da Il figlio della serva ad Inferno al suo stesso teatro, dinnanzi a giudici, aridi ed implacabili detentori del potere, che egli copre di scherno e di disprezzo ma, forse ancora più che nel conforto della Chiesa, quale forza e istituzione che emerge nelle varie edizioni di Verso Damasco, qui il discorso si fa più diretto ed emotivo fra l'Uomo — «il Cacciatore» come egli chiama il suo protagonista — e «il Grande Donatore» invisibile che dovrà assolverlo: una sorta di pubblica confessione in cui Strindberg si spoglia del suo orgoglio, si purifica dei suoi peccati, delle sue ire rabbiose e violente ed affronta il giudizio finale con l'animo mondato e puro nella più scoperta umiltà. «Ha lottato» — dice nelle sue note il regista Mario Morini — «e si dichiara vinto da Dio». Le ultime parole del dramma saranno: «Benedici per primo me, che ho sofferto di più, che ho sofferto l'atroce dolore di non essere colui che volevo essere». Ma, per giungere a questa ultima Stazione di una quasi laica Via Crucis, il Cacciatore — e con lui Strindberg — deve incontrare tutti i fantasmi della sua tormentata vita: i ridicoli detentori del potere che lo hanno sempre combattuto, i suoi doppi in cui si identifica e differisce — il Viandante, l'Eremita, il Giapponese — e, soprattutto, la presenza femminile negativa che ha condizionato la sua vita — «La più forte» diremmo, ricordando una sua celebre opera — e che, qui, trasmigrano dalla Ragazza, a Klara, alla Donna, sino alla sua ultima fisica identificazione con il Grande Tentatore.
Il regista Mario Morini, che ha lavorato su una traduzione e adattamento di Enrico Groppali è stato affascinato — ma non poteva essere diversamente — dai continui balzi in avanti della fantasia di Strindberg, dalle sue inquietanti premonizioni che si proiettavano nel tempo per decenni. Le ha, quindi, evidenziate come sottolineandole violentemente con l'ichiostro rosso e di questo viaggio, quasi immobile, che il Cacciatore compie dentro se stesso, nella sua rocciosa centralità cosi come ha fatto l'aspro e sofferto Massimo Foschi che lo ha ottimamente interpretato. Erano riferimenti, anche visivi a Pirandello, a Beckett, a Eliot, a Jonesco cui hanno dato vita, fra le scenografie astratte di Stefano Pace e nei marmorei costumi di Anna Maria Heinrich, Milena Vukotich che era tutte le ricordate Donne e, poi, Carlo Simoni, Mico Cundari, Carlo Condé, Stefano Gragnai, Eliana Lupo, Gianluca Farnese, Antonio Cascio e la piccola Elettra Farnese quale straziante visualizzazione dell'impossibile ritorno all'infanzia.
Grandissimo interesse e tensione in platea che si scioglieva in calorosi, prolungati consensi ed applausi.
LUCIO ROMEO, Il Tempo, 25 luglio 1990
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