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La recensione di Luciano Ronchi
 

La recensione

 

È Dio il grande imputato

Fedele alla tradizione dell'inedito, la trentasettesima Festa del Teatro fatta celebrare dall'Istituto del Dramma Popolare ha proposto a San Miniato un dramma ed un autore ancora pressoché ignoti al pubblico e ai lettori italiani, se non per la coraggiosa e intelligente iniziativa del loro traduttore, Daniel Vogelmann, che ne ha dato altresì divulgazione attraverso la sua casa editrice, la «Giuntina» di Firenze. E sì che il nome di Elsie Wiesel, scrittore che novera al suo attivo oltre venticinque titoli, numerosi premi letterari e ben due candidature al «Nobel» (singolarmente l'una per la letteratura e l'altra per la pace) ha acquisito nell'ultimo ventennio tale risonanza da porlo ormai nella serie di coloro il cui pensiero può essere eletto a simbolo e insieme a guida della civiltà e della cultura del nostro tempo.
Messaggero dei morti tra i vivi, voce vivente dei milioni di ebrei scomparsi, testimone sopravvissuto della oscura Notte dell'umanità, Wiesel custodisce in sé, incancellabile, la visione dei campi di Auschwitz e di Dachau, nei quali si è essiccata la sua adolescenza, dei forni crematori che inghiottirono, insieme a milioni di altri ebrei, la sua famiglia, e rivive e ripropone, attraverso la persecuzione e il genocidio della sua gente, le miserie del'umanità tutta intera.
In "Processo di Shamgorod", che a San Miniato è andato in scena per la regia di Roberto Guicciardini, l'Olocausto è portato indietro nel tempo, al febbraio del 1649, e l'azione si sposta in un villaggio dell'Europa orientale, all'indomani di un pogrom che ha visto la distruzione e lo sterminio della popolazione ebraica. Unico scampato è Berish il locandiere, un uomo già distrattamente devoto che ora fissa su Dio tutta la sua disperata ribellione incolpandolo di aver permesso lo sterminio del suo popolo, ed Hanna, la giovane figlia, che ha subito oltraggiosa violenza e si è rifugiata nell'evasione di una sua dolce follia. Vive con loro Maria, la servente, scampata perché cristiana, che pure ha una sua storia dolorosa di amore e di peccato.
Quando sopraggiungono tre attori girovaghi, inconsapevoli della tragedia, e propongono una recita di Purim, l'azione si intreccia tra la realtà presente — cui incombe il pericolo di un nuovo massacro — e una sorta di rappresentazione ispirata ad un processo a Dio, cui si chiede di render conto del perché consenta agli esseri umani di trasformarsi in animali selvaggi, del perché dia agli assassini la forza e alle vittime le lacrime, l'impotenza e la vergogna. «O è responsabile — dice Berish, costituitosi pubblico accusatore — o non lo è; se lo è, giudichiamolo, se non lo è, che smetta di giudicarci». Occorre anche un avvocato difensore («uno cattivo che è pagato per dir bene di uno ancora più cattivo») e nessuno è disposto ad assumere questo ruolo, tanto la ribellione è radicata negli animi, sin che non sopraggiunge un individuo ambiguo e sottilmente causidico che se alla fine si rivelerà nell'immagine lo stesso Satana, unico ad avere interesse a sostenere il suo grande Rivale.
Il processo a Dio, nell'eterno contrasto tra onnipotenza e suprema bontà, si conclude — né avrebbe potuto essere altrimenti — senza che alcuna sentenza venga pronunciata.
Forse più destinata alla lettura che alla rappresentazione, e perciò in parte appesantita e allentata nella forma letteraria e in una qualche involuzione ideologica, l'opera avrebbe abbisognato di una regia più mossa e fantasiosa. La recitazione, affidata in massima parte a Carlo Bagno (che ha offerto una interpretazione di altissimo livello) e a Carlo Hintermann, vigoroso ed efficacissimo, è stata — nonostante qualche concessione all'enfasi — di ottimo livello e di perfetto affiatamento. Consensi personali hanno ottenuto, anche a scena aperta, Anna Teresa Rossini e Michela Pavia, così come Virgilio Bernitz, Edoardo Siravo, Giorgio Naddi, Warner Bentivegna.

Luciano Ronchi II Giornale, Milano, 1 Settembre 1983




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