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La recensione di Nazareno Fabbretti
 

La recensione

 

L'avventura di due «poveri cristiani»

Con "Eloisa e Abelardo", andata in scena nella chiesa di San Francesco a San Miniato, per la trentaduesima festa del teatro popolare, Franco Enriquez, prima che il pubblico e la critica, ha sfidato in se stesso sia l'autore al proprio debutto sia il regista di consumata esperienza e d'imprevedibile intuizione. Ha sfidato soprattutto l'uomo di cultura.
La sfida era da fare tremare le vene ai polsi. Si trattava di trasferire, a quasi a mille anni di distanza, dall'epistolario al palcoscenico, una storia strepitosamente «moderna», come quella di Abelardo e Eloisa, conservandola tuttavia negli schemi culturali, sociali ed ecclesiali in cui esplose allora. E' facile soltanto a prima vista, dal punto di vista spettacolare, questa storia del filosofo e teologo ribelle, morto nel 1142 nel monastero di Cluny, e della sua grande interlocutrice e partner dì cultura, ricerca, peccato ed espiazione, amore e fede, femminista avanti lettera, innamorata totale senza mai diventare «donna oggetto», sua nella carne come nella espiazione, morta nel 1164.
Dunque ha dovuto lottare contro grandi insidie, davanti ad un testo del genere. Ha ridato la spettacolarità dello sceneggiato popolar-televisivo e le frange inevitabilmente devianti al «fumetto» in ogni storia del genere.
Ha rispettato la storia per quello che era: una straordinaria, folgorante storia di amore, e anche di passione, di sesso, una storia che gronda da una parte il sangue di Abelardo, evirato per vendetta, dall'altra le lacrime di Eloisa, sparse per un amore invincibile; ma non s'è lasciato scappare nemmeno una virgola sull'occasione truculenta che gli offriva quella evirazione barbarica. Enriquez ha scelto una dimensione più interna e più ardua della storia, non perdendo mai di vista l'epistolario, anzi mettendone in evidenza e in azione la specifica singolare teatralità.
L'epistolario documenta una vicenda modernissima, profetica, di intelligenza e di curiosità, di affinità elettiva e di passione per la ricerca, di peccato ed espiazione, di libertà e di fedeltà, di contraddizione e di ambiguità. Ed è anche «l'avventura di due poveri cristiani», della ricerca della propria identità affettiva e culturale in una società teocratica ma già fermentata dai veleni ereticali e accesa dalle folgorazioni di grandi santi e riformatori. Tutto è indivisibile, nella storia e nei due protagonisti. Già Enriquez ha tenuto conto, fino in fondo, del fatto che l'amore esploso in Abelardo ed Eloisa è, prima di tutto un calor bianco che invade con lucidità cristiana, irrimediabile, quasi selvaggia, la loro mente incontentabile il loro cervello.
Sullo sfondo vi è la guida dei simoniaci, la nascita dei conflitti fra le grandi università laiche ed ecclesiastiche, il populismo ascetico di Arnaldo da Brescia (discepolo di Abelardo), il riformismo crociato di San Bernardo di Chiaravalle, le istanze di una cultura che in San Francesco, fra cinquant'anni, offrirà le premesse ad un umanesimo totale, cristiano e laico nello stesso tempo.
Abelardo non è il «Galileo della teologia» (semmai lo sarà, fra poco, Tommaso d'Acquino) ma è comunque un testimone della ragione, un esempio di ricerca e di coerenza culturale; cristiano di obbedienza che però non rinnega mai la propria mente, strumento dato da Dio all'uomo per interrogare anche la rivelazione e risponderne. Enriquez tutto questo non lo dimentica mai, e se di una certa insidia non è riuscito ad avere ragione è proprio questa, pretendendo di dir tutto ad ogni costo. Comunque, da autore e regista di estremo scrupolo, non ha mai barato mescolando i riflessi della castrazione di Abelardo con quelli della sua esorcizzata e condannata ricerca filosofica e teologica. Sulla prima non si è mai lasciato sfuggire nemmeno una virgola personale. Abelardo è contestato — lui contestatore e demolitore tranquillo di illustri maestri — perché ha osato anticipare la libertà di pensiero, associandovi una donna tanto unica e libera come Eloisa, non perché lui, il maestro, ha abusato di lei come donna-discepola, costringendola poi a prendere il velo pure avendone avuto anche un figlio, al fine di non compromettere la propria carriera accademica. In modo diversamente perentorio, sia San Bernardo, sia Pietro il Venerabile, gli chiedono conto della sua dottrina, non della sua caduta.
Tutto questo emerge chiaro e insieme problematico sia dal testo, sia dalla riduzione scenica che ne è derivata, anche per merito della scenografia elementare e liberante di Franco Bonaiuti, delle coreografie atemporali e surreali di Julie Coell e dei canti gregoriani curati da Gualtiero Sollazzi, come dei «planctus» composti, sulla propria anima e pelle, dallo stesso Abelardo.
E' soprattutto per merito di Valeria Moriconi, struggente, devota, dolorosamente sfrontata, pudica, qui in una delle sue interpretazioni più congeniali e complete, che la storia, come scrive Luciano Marrucci, direttore dell'istituto del dramma popolare di San Miniato, emerge —, come più non potrebbe essere — umana e insieme religiosa.
Accanto alla Moriconi, Nando Gazzolo, intenso quanto controllato, devoto giusto fra passione carnale e speculazione intellettuale, offre una figurazione più classica del personaggio. Molto efficaci, in ruoli diversi, anche Carlo Hintermann (San Bernardo), Giampiero Becherelli (abate di Cluny), Mario Ballerino (Arnaldo da Brescia), Giuliano Melchiori e Davide Maggio.
Fra peccato e espiazione, timore e speranza, il grido che riassume tutta la storia dell'opera esce però dal cervello e dalle viscere di Eloisa-Valeria: «La monaca è di Dio, la penna è tua».
Ed è lei stessa a dire la vera epigrafe di sé e di lui di questi due amanti predanteschi che, come si sa, furono seppelliti nella stessa tomba: «La tua tomba condividere, la tua morte sia la mia», e: «Così per sempre insieme, nella morte che ora muore».

Nazareno Fabbretti Gazzetta del Popolo, Torino, 29 Agosto 1978




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