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Il Secolo d'Italia - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

A San Miniato va in scena il Teatro dello spirito
Teatro dello spirito, quello che ogni anno ci dà appuntamento a San Miniato, sulla storica Piazza del Duomo. Teatro dello spirito, dunque intimamente religioso, anche se non necessariamente confessionale o edificante; teatro degli interrogativi, delle inquietudini, delle sofferenze dell'uomo che, confusamente, cerca l'amore e la verità; che si sforza di stabilire un contatto con l'altro, di comunicare, e cioè di entrare in comunione: ma spesso la confidenza è ispida, tormentata, rancorosa, lo slancio sincero si mescola alla malafede e alla menzogna, la disinteressata offerta di sé cede al raggiro e al più terribile dei peccati contro il prossimo: quello compiuto ingannando chi si fida; chi nulla teme da noi, chi, anzi, da noi si attende tutto il bene possibile. Teatro dello spirito: della devozione che prega ma anche delle urla soffocate e di tutte le ostinate domande che l'umanità ostinatamente si pone: perché, Signore, devo soffrire tanto? Perché, Signore, c'è tanta cattiveria nel mondo? Perché, Signore, hai voluto che nascessi? A che cosa mi chiami? A qual fine, io, già carico delle lacrime mie, debbo farmi obbligo di quelle del mondo, attraversando a fatica dolorose valli, sotto la sferza di fuoco del sole o quella diaccia del gelo, sì, proprio come il lacero, afflitto viadante leopardiano, per poi precipitare in un baratro immenso? Che cos'è la vita, che cos'è la morte, Signore? Eppure, il Dio crocefisso è nostro fratello anche nella tentazione più difficile a sostenersi: quella che viene dalla disperazione. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ma ci abbandona davvero nostro padre? E ci abbandona davvero il Padre?
Ecco, forse la principale questione che, in tanti differenti linguaggi, l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ripropone un anno dopo l'altro (e di anni ne sono passati quarantotto) con il suo teatro rappresentato là dove si prega; la domanda più coinvolgente e sconvolgente, è questa: «Ci abbandona davvero il Padre?».
Bruno, protagonista de Il Cristo proibito (il testo, di Curzio Malaparte, ebbe una versione cinematografica nel 1951 e ora è stato adattato per il teatro da Ughi Chiti e da Massimo Luconi) è un orfano in tutti i sensi. La sua patria si è sbriciolata nell'atrocità della guerra; in Russia ha sofferto una lunga prigionia; in Italia, il fratello, partigiano, è stato ucciso dai tedeschi a seguito della denuncia di una spia; e adesso che è tornato al suo paese, tutti lo temono, perché lui ha voglia di vendicarsi, di saziarsi col sangue del delatore, di farsi barbaricamente giustizia da sé, mentre la gente vuole pace. Dobbiamo perdonare o dobbiamo ricordare? Bruno vuol ricordare e vuole la sua vittima da immolare: dimentica, però, che la memoria non può essere sottoposta a filtri: se ce ne facciamo carico, il peso può essere immenso, e addirittura possiamo scoprire che chi ha tradito nostro fratello combatteva con noi e per noi. Il delatore infatti è un partigiano: perché ha tradito? Ma quanti perché? scaturirebbero da una risposta troppo facile, che non riempie né esaurisce l'abisso della nostra coscienza! E, poi, la vittima: la tradizione, pagana e cristiana, la vuole innocente; l'ostia, l'agnello sacrificale è Cristo in croce: ed è "proibito" e, a un tempo, necessario crocifiggere chi non ha colpa, per redimere la società. Così avverrà: morirà un innocente.
Il tema malapartiano, come si vede, è di quelli che non danno tregua: sciogliere un nodo significa aggrovigliarlo, se non cediamo al mistero della Croce.
E la resa teatrale? Oddio, le immagini hanno un loro scarno, intenso vigore: e Masolino d'Amico non sbaglia a parlare, sulla Stampa, di «operazioni di drammaturgia collettiva come quella annuale di Montichiello». Ma noi, soddisfatti degli esiti corali che riempiono il palcoscenico (la processione, nello scenario povero ma dignitoso di una Toscana ferita, un paese dove la natura, come scrive Malaparte, è «magra, severa, nuda» come quella di Giotto, di Masaccio, di Piero della Francesca, è fatta di sequenze suggestive) lo siamo un po' meno per quel che riguarda l'interpretazione. Gli attori — Claudio Bigagli (Bruno), Patrizia Corti (Nella), Lucia Socci (Teresa), Lucilla Morlacchi (la madre), Massimo De Francovich (padre Antonio) sono bravi professionisti, — intendiamoci. E caratterizzato da sensibilità attenta e scrupolosa è il tratto della regia. Ma da un teatro dello spirito si vorrebbe, forse, qualcosa di più. Non basta che una sacra rappresentazione ci faccia riflettere un attimo. Essa deve persuadere e rapire, Abbiamo bisogno di un Dio che ci scavi dentro, inginocchiatoio e lama di coltello come quello di Giuliotti, di attori - sacerdoti che si trasformano mentre recitano e di un pubblico a disagio.
Gente che guardi e patisca, sentendo che ogni attore le va soffiando in faccia: guarda, la storia parla di te, è di te che racconta...
MARIO BERNARDI GUARDI, Secolo d'Italia 19 luglio 1994




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