Poesia ed emozioni nel "Saulo di Tarso". Gazzolo porta in scena le visioni di Milòsz
Nell'antica disputa sugli scrittori ei il teatro i poeti occupano una posizione privilegiata. Scrittori anomali, sono gli unici testimoni dell'eterno conflitto tra l'eroe e il mondo. Sui oppongono l'intransigenza della propria forza morale che trionfa dell'intima fragilità della persona proiettandoli nel cielo delle idee innate, messaggeri nel sendo più alto della dottrina platonica. Esiste infatti qualcosa più degno di rispetto di un essere che sposa il mondo, si fa carico del suo ingombrante fardello di colpe e, attraverso il sacrificio della vita, contribuisce a tramutarlo in un brandello dell'Eden originario? Alexandr Blok, Marina Kvetaeva, Gabriele D'Annunzio e Algerton Swinburn sono, tra i tanti, gli esempi massimi del solitario trapasso dalla poesia come pratica quotidiana alla poesia come prassi di palcoscenico.
Oscar V. Milòsz, lo scrittore lituano di lingua francese nato a Czereja nel 1877 e morto in odore di santità a Fontainebleu nel 1938, fa parte di quella schiera di grandi solitari che dapprima hanno cercato il senso della vita nella paziente catalogazione dei canti popolari del loro Paese tragicamente privato d'identità, e han poi trovato nella meditazione dell'Antico Teastamento e dell'Apocalisse di San Giovanni una nuova fonte di speranza e di luce. Autore di tre drammi, Miguel Manara più volte rappresentato, Mefiboseth del tutto trascurato e Saulo di Tarso, più volte citato senza che ne venisse mai assrontata una verifica diretta sulle denedette assi del palcoscenico, riceve oggi una simbolica investitura per merito della nuova dirigenza posta a capo dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato che, in coproduzione col Teatro Elsinor, nel varato una bella edizione sulla storica piazza della cittadina toscana.
La scenografa Emanuela Pischedda, per ambientare questo dramma dello spirito che Milòsz situa in una città marittima della Giudea, ha rizzato dei camminamenti circolari che paiono scavati nella roccia della lenta erosione delle acque, li ha cinti di massi squadrati e colline petrose e ha immaginato, al centro dell'emiciclo, una meridiana che ricorda il grande orologio del tempo cui fa più volte riferimento il protagonista di Verso Damasco nelle varie redazioni del capolavoro di Strindberg. In lunghe tuniche fulgenti di squillanti colori primaverili, i giudei si muovono addolorati per l'imminente partenza di Caio Rudo, il romano che ha educato Saulo di Tarso e Rehob, farisei di altra religione, nel culto dell'Impero. Ma, e qui sta la novità dello spettacolo e l'idea portante della drammaturgia (di Maurizio Schmidt, che cura anche la regia). Caio assume le spoglie di Milòsz che, nel '26, si convertì clamorosamente al cattolicesimo dopo aver vagabondato geougraficamenti e spiritualmente un po' ovunque, sensibile agli afflati di un panteismo che, a tratti, parve assimilarlo a Svedenborg.
L'aver voluto far coincidere, a San Miniato, la figura dell'inviato di Roma, padre putativo di Saulo, con quello dell'illuminato che annuncia la conversione del proprio figlio spirituale, destinato sotto il nome di Paolo, alla corona di martire, getta sullo spettacolo un inquietante riflesso. Fino a che punto si può parlare di predestinazione o di libero arbitrio in una conversione miracolosa? Un quesito che la presenza di un attore umanissimo e ispirato come Virginio Gazzolo, cui va affiancato oltre allo stesso Schmidt il lucido e appassionato Mauro Malinverno, riverbera sul pubblico contagiandolo della sua stessa commozione.
ENRICO GROPPALI, Il Giornale, 23 luglio 2001
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