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La recensione di Giorgio Prosperi
 

La recensione

Uno spallido mondo assediato da Dio

Portare a San Miniato un'opera di Graham Greene è come far arrivare un'ondata violenta ed insanguinata dello sconsacrato mondo moderno in questa cittadella dell'ordine e della fede tradizionale. Anche i socialisti a San Miniato respirano l'aria delle alture e ieri i muri erano pieni di manifesti e saluti augurali al Presidente della Repubblica, a cura del P.S.I.. Si capisce che c'era in quei manifesti alcunché di insinuante, un'ispirazione venuta di lontano; ma visti di lassù, appiccicati alle pareti della rocca tra uno sfarfallio di tricolori e uno splendore di luminare, nelle viuzze piene del fragore dei corazzieri motociclisti, davano l'idea d'una repubblica ideale, alta sulle miserie del mondo, fortificata nella tradizione, compatta attorno al seminario cattolico.
Ma quest'anno, come dicevo, la scelta è toccata a un Catone «sui generis», Graham Greene, inglese convcrtito alla fede di Roma, noto assai imperfettamente al grandissimo pubblico come autore di soggetti cinematografici tra i quali Idolo infranto ed Il terzo uomo, donde non traspare nemmeno l'ombra della sua reale vocazione di scrittore, che è religiosa allo stesso titolo che sensuale, realistica proprio là dove tocca i massimi problemi. Forse il pubblico ricorda un film di John Ford, La croce di fuoco, tratto da un romanzo di Greene, Il potere e la gloria; ma il film, se aveva qualche bella sequenza della rivoluzione in Messico, era lungi dal riprodurre lo spirito del romanzo. Sembra quasi che Graham Greene si difenda dall'assedio di una miracolosa presenza e sia costretto a prendere atto della sua persistente azione in un mondo squallido e peccaminoso, egualitario e concentrazionista, scolorito d'ogni apparenza del divino. E tuttavia, anzi vorrei dire proprio a codesto punto, la presenza si manifesta. Francois Mauriac ha udito Greene in una conferenza a Bruxelles, evocare l'ultimo Papa di un'Europa completamente scristianizzata, che fa la coda davanti a un commissariato, indossando un impermeabile unto e reggendo con la mano, in cui brilla ancora l'anello del pescatore, una valigia di fibra.
L'estetica di Greene è tutta qui: complice adesione ad un mondo profugo ed insabbiato, dai colori neutri, dai capelli appiccicati dal sudore, incerto del domani, tenuto su a forza di alcool e di analgesici; un mondo di paura, di nausea e di disperazione, in cui il peccato e il delitto sono le sinistre ombre di un grande amore frustrato e nel quale tuttavia questo amore penetra a forza, per le vie più carnali ed elementari, nei sensi sovreccitati dall'aridità della vita mentale; un amore contro cui non c'è difesa né resistenza, che utilizza il peccato e arriva fino ad assumere le parvenze dell'adulterio e poi
si svela come qualche cosa di più alto e diverso, una fuga verso qualcuno che solo può acquetare la nostra sete.
Due scrittori, Denis Cannan e Pierre Bost, noti, specie il secondo, per lavori cinematografici (Les jeux interdits, Dieu a besoin des hommes) hanno eseguito una riduzione per il teatro de Il potere e la gloria, approvata dall'autore medesimo. L'azione si svolge in Messico, al tempo della rivoluzione. Un solo prete cattolico è rimasto nel paese, un piccolo uomo impastato d'orgoglio e di paura, di peccato e di eroismo. Da dieci anni sfugge alla polizia politica. La paura gli ha insegnato a bere, la solitudine a coricarsi con una donna. Conosce i torti della precedente classe politica e le ragioni della presente: con un atto, sposarsi, potrebbe mettersi in regola con la rivoluzione e dar tregua ad una vita impossibile. Ma la fede urge dentro di lui, è più forte della paura, lo spinge, contro la sua natura, a sfidare i poteri costituiti pur di cercare un po' di vino bianco per dir messa. Sfinito, raggiunge il confine, aspira l'aria libera, quasi se ne inebria. Ma vengono a chiamarlo per assistere un bandito morente: il prete sa che è un tranello per arrestarlo, ma torna indietro in tempo per assolvere il moribondo. Arrestato, è condannato a morte. È tentato un'ultima volta di abiurare; ma la sua fede è più forte della paura. Lo trascinano sfinito al supplizio, desolato di presentarsi a Dio a mani vuote. Egli non sa che appena dopo la sua morte un altro prete clandestino verrà a prendere il suo posto.
La riduzione teatrale è condotta con abilità, puntando sulla scena chiave, non senza qualche compiacimento di crudeltà secondo i dettami più aggiornati del gusto moderno. La trama è pressoché quella del romanzo, di cui si perde tuttavia l'atmosfera densa, il senso del tempo che passa. L'interiorità del prete è data in gran parte per dimostrata. Ricreare un clima su codesta ossatura è stato compito del regista Luigi Squarzina, che ha dovuto superare la non lieve difficoltà di trasformare i nostri attori in peoni dai sombreri spioventi e le basette messicane; e di applicare sulle teste d'angelo delle nostre attrici, corvine parrucche a coda, indice di sensualità elementare. La scena di Gianni Polidori, di un accentuato e fantastico barocco messicano, chiudeva l'azione in una cornice densa, cui faceva contrasto il realismo, talvolta un po' manierato, delle singole vicende. In complesso una storia teatrale in più di un punto credibile e toccante.
I toni dimessi ed insinuanti del Tieri, uno dei nostri attori più sensibili e penetranti, diedero alla figura del prete un non so che di intellettuale decaduto, un'ambiguità non proprio da creatura elementare ma che resta e lavora nella memoria. Bravissimo, nella scena finale dell'esecuzione. Zora Piazza, nella parte di Maria, la donna che ha dato al prete una bambina, ha piegato la sua natura di ragazza moderna agli impeti sentimentali e profondi di una indigena. Ivo Garrani fu un giovane e duro tenente di polizia, un idealista rivoluzionario non privo di una compressa umanità. Mario Ferrari un dentista inglese, un insabbiato, tipica figura alla Greene; Vinicio Sofia un compromissario e volgare capo di polizia; Checco Rissone un colorito contrabbandiere d'alcool; Andrea Matteuzzi, il meticcio traditore, fu una figura un po' convenzionale, da romanzo esotico. Dei molti altri interpreti ricorderemo la giovanissima Alida Cappellini, nella parte di Brigitta, la bambina del prete, Antonio Pierfederici, Raffaele Giangrande, Achille Majeroni, Sergio Graziani, taluni assai bene mimetizzati nelle diverse parti che interpretavano.
Così, dicevo in principio, sulla rocca di San Miniato, in un idillio di partiti politici, è salito un prete martire e peccatore a rammentare in codesto asilo di pace le contraddizioni e i dolori del mondo. C'è salito con tanto di marchio del Santo Uffizio, benvenuto tra questi preti ordinati, rispettosi, sereni, che tuttavia l'hanno accolto con carità fraterna, senza formalizzarsi sui suoi aspetti sgradevoli, andando liberamente, direbbe Graham Greene, al nocciolo della questione. Semmai eran certi laici bigotti a sentirsi la bocca amara. Tanto è vero che c'è assai più spirito di libertà in chi crede e si esprime sul serio, che in chi indossa il sajo per proteggere la propria tranquillità.
Gronchi ha assistito con vivo interesse alla rappresentazione ed ha applaudito assieme al pubblico. A loro volta gli attori, assieme al pubblico, hanno applaudito il Presidente.

GIORGIO PROSPERI, Daily American, Roma, 18 Novembre 1955




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