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La recensione di Gualberto Ranieri
 

Di fede si muore nel nordest del Brasile
Dopo Monticchiello, S. Miniato. Il lettore romano non deve volercene se, per seguire il teatro «estivo», riferiamo di spettacoli che hanno luogo fuori dai confini di Roma e del Lazio: il fatto è che la Capitale, quest'anno, non offre gran che all'appassionato del teatro di prosa, mentre altre regioni e altri centri, più o meno turistici, non hanno disdegnato di stanziare alcuni fondi anche a questo tipo di spettacolo. Ma su questo argomento converrà spendere qualche parola a suo tempo.
Dicevamo dunque di S. Miniato. La «Festa del teatro», nel piccolo e simpatico centro della Toscana, a due passi da Empoli, sulla strada che da Firenze porta a Pisa, è diventata ormai un appuntamento tradizionale (quella di quest'anno è la ventisettesima edizione) senza essere caduta nella pericolosa tenaglia della «routine», nonostante il «peso» del tema. Già, perché il filo conduttore degli spettacoli che vengono prodotti annualmente a S. Miniato è quello del rapporto fra la scena e la Religione nel senso più ampio del termine.
Da Eliot a Bernanos, da Fabbri e Vallejo, da Greene a Claudel, i maggiori «spiritualisti» della scena contemporanea sono passati sul sagrato del Duomo del borgo Toscano dove vengono allestiti gli spettacoli davanti a un pubblico sempre più attento e sempre più critico.
Quest'anno era la volta di un autore contemporaneo brasiliano, Alfredo Dias Gomes, scoperto da quel serio e pignolo uomo di cultura che è Ruggero Jacobbi, che tanto entusiasmo spese in quella terra sudamericana negli anni della sua gioventù e che da molti anni si adopera di fare conoscere al pubblico italiano, attraverso 'scritti critici e, quando può, recital e spettacoli gli autori brasiliani più significativi.
Diciamo subito che la scoperta è stata felice e la scelta ben azzeccata, soprattutto se pensiamo all'apertura che la Chiesa di Roma ha condotto verso i paesi del Terzo Mondo dopo il Concilio. Dal punto di vista più strettamente teatrale aggiungeremo che è utile per lo spettatore italiano ( quello almeno che rifiuta l'etichetta di « estivo », dunque di palato facile) accostarsi per una volta, a una drammaturgia immediata, semplice, ma, allo stesso tempo, problematica qual è quella che opera con tanta difficoltà in un paese travagliato da conflitti sociali, religiosi e dunque politici.
«O pagador de promessas» ( Il pellegrino del Nordest nella traduzione e riduzione dello stesso Jacobbi) pone in prima istanza il problema dell'incontro-scontro fra la situazione spirituale di quelle terre e il Cristianesimo colà importato dai missionari portoghesi fin dai primi anni dell'occupazione di Lisbona. Ed è abbastanza chiaro anche da questo testo drammaturgico che tale conflitto non è solamente affascinante e interessante da un punto di vista superficialmente «esotico», quanto piuttosto da quello antropologico e sociologico. La caparbietà, agli occhi dello spettatore smaliziato irritante, di Josè, che ha fatto un voto a Santa Barbara secondo il quale avrebbe portato una croce pesante come quella del Cristo sulle spalle fino alla chiesa dove si venera la Santa (che secondo la tradizione animistica africana corrisponde a Iansàn). per colpa della quale sfiderà fino alla motte l'intransigente scrupolosità del parroco Padre Olavo, contrario a mescolare il Sacro con il Profano, è specchio di una situazione ben precisa. Così come la debolezza di Rosa, moglie di Josè, che cade nella facile tentazione del magnaccia Belluomo, va vista secondo l'ottica di un paese che vive profondi incredibili squilibri e dùnque la prospettiva di dormire in un letto dotato di materasso a molla, causa occasionale della sua «caduta» e tradimento, è la reazione di un popolo povero alle illusorie tentazioni del consumismo.
D'accordo, è ben vero che altri personaggi del dramma, il reporter, il fotografo, lo stesso magnaccio e la prostituta, sono delineati secondo un cliché arcinoto, ma non dobbiamo dimenticare in quale contesto sociale questo lavoro venne destinato ad essere rappresentato e pertanto certe manifestazioni di ribellione all'«uovo di Colombo» potrebbero essere interpretate come provindalismi abbastanza pericolosi.
Della realizzazione, detto questo, non c'è molto da aggiungere, perché il regista Jacobbi ha giustamente puntato a non modificare lo spirito sudamericano del lavoro, cioè quella sua semplicità, immediatezza, spontaneità, che rendono il dramma di Dias Gomes vivo e appassionato. Renato De Cannine (José) è stato il più aderente a questo spirito ben accompagnato da Elena Cotta (Rosa) e da Carlo Alighiero (Padre Okvo).
La facciata del Duomo di San Miniato magari non era proprio del tipo di quelle delle chiese brasiliane del Nordest, ma un limpido manto stellato, una mezzaluna nitida e il nervoso volo di uccelli disturbati dalle luci dei riflettori dal loro sonno hanno fatto da incantevole scenario anche in questa contrada della Toscana.
GUALBERTO   RANIERI, Momento Sera, Roma, 25 Luglio 1973




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