Un segno del nostro secolo nella storia del teatro
Nel nostro n. 37 del 15 settembre, Guido Manacorda diede notizia dello spettacolo di S. Miniato, e illustrò il mirabile testo di Bernanos: Dialogues des Carmélites, che oggi si rappresenta a Roma alle Arti, nella stessa edizione di San Miniato, diretta da Orazio Costa e adattata alle angustie di un teatrino. Dicono coloro che furono presenti allo spettacolo di allora, che quello di oggi lo supera in senso di misura, compostezza, velocità ed efficacia drammatica.
Costa ha ritrovato il tocco felice, quasi diremmo il gusto lirico e narrativo del movimento corale, che fece del Poverello di Copeau una grandissima prova di regìa; ha trovato un indicibile equilibrio nell'intonazione dei recitanti, un rapporto nuovo a gradevolissimo tra i modi un po' cantanti di stile accademico, e quelli personali di attori delle più varie provenienze e attitudini, tutti fusi e orchestrati al solo fine d'illuminare un testo difficile, denso, che non permette divismi né stanchezze, pena il proprio annullamento.
I dialoghi di Bernanos possono lasciare, per così dire, sur piace uno spettatore che non sia abbastanza sostenuto dall'intelligenza critica del regista e dalla chiarezza interpretativa dell'attore: le quali, a loro volta, non possono adagiarsi sull'intenzione esegetica, pena la noia conseguente alla distruzione dell'interesse drammatico. Una fiorita, per non dire antologia di sentenze, aforismi, rielaborati e invenzioni della più alta tradizione religiosa e morale, quando non anche tratti di poesia lievitante su dolci impaludamenti di quella retorica sempre nobilissima, costituiscono, quasi per intero, la materia di questo conversevole dramma, la cui massima validità è corrispondente alla massima penetrazione delle parole che si dicono in scena. È il testo tipico del teatro moderno, che si raccomanda alla regìa, e non può essere sostenuto da nessuna bravura individuale che faccia spicco tra contorni approssimativi. La regia deve scoprire un livello medio, la recitazione attenervisi: i rapporti anche musicali, oltre che intellettuali, ondulando blandamente alla ricerca dei più morbidi mezzi di penetrazione, generano forse alla lunga una squisita monotonia, ma fanno capire e godere il tutto; mentre le punte e le impennate dell'attore insofferente di freni e ribelle al concerto, possono dar forza a questa o quella scena, dar rilievo a questo o quel momento, ma sempre con grave scapito dell'insieme, e con il sacrificio di piccoli tesori affidati a tutti o quasi tutti i numerosissimi personaggi.
Si veda l'interpretazione data da Evi Maltagliati della Madre priora morente: sentivi un'ammirevole e solitamente ammirata bravura, ma anche un principio di stonatura, qualcosa come un'intrusione indebita, un errore di stile. L'errore era, si noti, un errore della Maltagliati, cioè di un'attrice difficile a dirigersi, sia per la sua autorità, sia perché ella sconfina in bellezza e smodula con tal prestigio, che ti induce a classificarla come spettacolo a sé, né sai se importi o imporle un intervento che, in ogni caso, toglierebbe qualcosa al pubblico. Per la Maltagliati si è trattato, dunque, di sfumature,
decimi di secondo, millimetri di soprelevazione, impercettibili differenze tra le lunghezze d'onda attese e quelle in realtà impiegate; ma pensiamo alla catastrofe che potrebbe nascere in quest'ordine di resistenze alla regia comune.
Si veda, al contrario, la recitazione di Ave Ninchi, la priora sanguigna e popolana, una prodigiosa immissione di realismo negli ambienti surreali di una vita e di un pensiero presantificati: perfetta, la più grande prova, noi crediamo, di tutta la sua carriera di attrice; la dimostrazione della docilità consapevole, senza alcuna rinunzia alla potenza e complessità dei propri mezzi, e senza alcun arbitrio per imporli al pubblico, al regista, ai compagni di scena. Non ricordiamo più nobile rinunzia a un applauso, rinunzia alla manifestazione ammirata di un consenso e di uno stupore che vengono molto di dentro, più intelligente e generosa di questa della Ninchi, che risolve la grandissima scena del secondo atto in un risvolto tonale precisamente opposto a quello che gli attori ricercano, qui dedicato a comprimere, sacrificare il meritatissimo premio, perché un ritmo, una battuta, una sospensione lirica non vadano perdute.
Ci si duole di non poter citare tutti, ma non si può tacere che Anna Miserocchi, la povera e trepida e finalmente eroica Bianca de la Force, è stata pari all'attesa, che la vuole in costante progresso, sempre più attenta all'essenziale, sempre meno insidiata da un certo strascico che nelle parti decisamente drammatiche pareva limitare le possibilità di questa sensibilissima attrice. Altrettanto mirabile, se non forse appena irrigidita dall'autocontrollo e dal rispetto della regìa, Miranda Campa, interprete della vicepriora aristocratica e assetata del martirio che poi rifiuta.
Edmonda Aldini, nella parte della deliziosa suor Costanza, che si gode la vita claustrale come un sogno da lei candidamente e ostinatamente inverato e insaporato di realtà, ha confermato le promesse anche da noi registrate dopo il saggio dell'Accademia.
Magistrali tutte le scene di insieme, in cui i movimenti delle suore pareggiavano in bellezza ed efficacia evocativa i più bei tratti del testo. Il quale, assai lungo, e forse sfrondabile senza alcun sacrificio di Bernanos (è tal miniera!), entrerà a far parte delle cose più nobili offerte da questo secolo antiteatrale alla storia del teatro.
Si dice del pubblico odierno, che non sia in condizione di intendere la vera poesia. Questo dramma lunghissimo, privo di lusinghe, mortificante ed esaltante, sempre denso di pensiero, polemicamente avverso a tutte le pigrizie, è stato ascoltato più che con rispetto, con piacere e abbandono, goduto in ogni sfumatura, applaudito freneticamente ad ogni atto, trionfalmente alla fine.
Vladimiro Cajoli, Idea, Roma, 7 Dicembre 1952
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