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La recensione di Mario Carrera
 

Un uomo tra ideali e realtà
Alla 36° Festa a S. Miniato la storia si fa teatro per divenire cronaca in una lotta contro il tempo, per una ricerca del rapporto con Dio che non può mai dare delle sicurezze pacificanti, ma impegna la vita di ogni persona in un percorso tortuoso verso gli ideali. «Non sono sicuro di niente, e resto qui — dice l'abate Ugo — disponibile alla carezza e alla spada. So che amo, che soffro» e solo queste due qualità dell'animo permettono all'uomo di sentirsi vivo nella sua storia.
Il Sacrilegio di Italo Alighiero Chiusano, presentato quest'anno, è un tentativo di rendere contemporanea la storia, in cui l'uomo è inserito con un involucro diverso ma con i medesimi problemi che da sempre fermentano e agitano la vita umana. Il Sacrilegio, storicamente collocato verso l'anno Mille, agita la vita di due personaggi:  il Papa Gregorio V e l'abate Ugo di Farfa.
Per salvare le anime è giustificato l'uso di qualsiasi mezzo? Una giusta causa deve percorrere una linea rettilinea o può utilizzare le strade contorte del compromesso pur di raggiungere il suo fine? Sono due interrogativi che rimangono senza risposta.
Il dramma parte da un fatto storico avvenuto nell'abbazia di Farfa prima che essa divenisse nei secoli espressione di spiritualità e di cultura per tutta la cristianità nell'alto Medioevo. L'abbazia, verso l'anno Mille, aveva perso le motivazioni religiose ed era decaduta in uno strapotere economico nei confronti dei coloni e nella rilassatezza nei costumi degli stessi monaci. Il giovane Ugo, animato da propositi generosi, si accinge a tentare di mettersi alla testa dell'abbazia per ridare ad essa l'antico splendore e purezza. Ma la strada per arrivare a salvare l'abbazia passava per la simonia: pagare con moneta sonante il titolo di abate. Il giovane papa Gregorio V, che pur in altre occasioni aveva colpito la simonia, suggerisce ad Ugo di sborsare la somma. Il custode delle virtù e « della santità cristiana aveva chiesto di lui stesso, ad un'anima ben intenzionata, di commettere un vero e proprio sacrilegio ».
Da qui l'angoscia e il dramma spirituale del nuovo Abate Ugo, dilaniato da un amore autentico a Cristo, ma con il peso di un peccato che aveva reso oggetto di mercé il Figlio di Dio; « inammissibile baratto: cose dello spirito con della moneta sonante ».
Su questa colpa e sull'ideale di riconquistare le anime a Cristo si snoda tutto il dramma di Chiusano, con qualche quadro di troppo, per indulgere su aspetti marginali.
Il giovane regista Gian Filippo Belardo, che già aveva collaborato con Diego Fabbri per la riduzione radiofonica di « Processo a Gesù » e con Testori per « Interrogatorio a Maria » e « Conversazione con la morte », ha saputo dare linearità all'interpretazione privilegiando l'espressione degli attori, la parola e le luci nel seguirsi agile dei tanti quadri che compongono la rappresentazione, utilizzando anche dei play back, registrazioni degli stessi autori nei momenti di maggior drammaticità nei colloqui individuali con Dio — molto suggestiva la morte di Gregorio V — o quando la « passione » del dialogo scava nella profondità dell'anima per mettere a nudo la ferita del peccato di simonia e il balsamo della grazia.
La produzione dello spettacolo di S. Miniato è stata
affidata a Rita Hintermann con il suo « Teatrino » con la collaborazione dell'« Artistico-Operaia » di Roma. Carlo Simoni ha saputo rendere in modo superlativo il dramma inferiore dell'abate Ugo: il peccato della simonia, che come ombra satanica lo segue in ogni suo passo, e la potenza dell'amore, che « ha sempre un grano di santità », hanno trovato nelle sue parole e nei suoi gesti la pacatezza del farmaco del perdono, ma anche la vivacità di una responsabilità storica compagna di ogni uomo, per una missione da compiere nelle limpidezze e nella generosità di un dono totale di se a Dio.
Mita Medici, leggiadra e assetata di vita, che distoglie il monaco Probato dai suoi propositi monastici per approdare alla religione musulmana, da al personaggio in Inga tutto il pathos della donna innamorata e anche il dolce ricordo di una religione nella quale bambina ha vissuto e che la segue con nostalgica malinconia. Gianfranco Ombruen ha saputo esprimere il temperamento del giovane Papa con accenti di provata professionalità. Vittorio Sanipoli, ha interpretato il ruolo dell'abate Campo, uomo senza ideali e avido di denaro. Il ruolo del monaco Probato è stato molto bene personificato da Giorgio Favretto; Probato è il simbolo giovanile del rifiuto delle mezze misure sia nel bene come nel male. Marina Landò ha ricordato nella parte di Luceria la figura di santa Chiara accanto al Poverello di Assisi, una donna che sa sublimare il suo amore, purificandolo dalle scorie della carne. Bravi anche Giorgio Naddi, portinaio e custode degli antichi segreti dell'abbazia, Serena Michelotti, Claudio Dani, Giolietta Gentile e il giovane monaco Sergio Rubini.
Nella presentazione del suo lavoro, Italo Alighiero Chiusano insisteva sul carattere popolare della sua rappresentazione; è riuscito a dare toni esistenziali a Il Sacrilegio cogliendo scelte comuni per le stagioni di tutti gli uomini; forse ha insistito troppo a lungo e in modo superficiale sulla castità dei monaci, non cogliendo la radice del dono del celibato, ma solo contrapponendolo alla cattiva testimonianza di alcuni monaci ed incanalandolo, alla fine, nella tradizione della vita monastica, senza però accennare al suo valore esistenziale.
Mario Carrera, Avvenire, Milano, 17 Luglio 1982




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