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La recensione di Achille Fiocco
 

La recensione

 

Un dono che il cinema ha fatto al teatro

 

È capitato questo: che, credendo di ritrovare le Indie, Georges Bernanos ha scoperto l'America: credendo di fare del cinematografo, ha scritto un'opera di teatro. I suoi "Dialoghi delle Carmelitane" che, togliendo il titolo dal racconto, al quale si sono ispirati, Orazio Costa ha ribattezzato "L'ultima al patibolo" e rappresentati a San Miniato a fine settembre con Evi Maltagliati ed Ave Ninchi, per iniziativa dell'Istituto del Dramma Popolare, sono — a parte qualche episodio non necessario — il trionfo della Parola drammatica, il trionfo dell'azione che la parola fa, sulla scena, poesia.
La storia è nota. Durante l'anno 1947-48 in Tunisia, Georges Bernanos, ponendosi alla dialogazione di una sceneggiatura per film del P. Raimondo Bruckberger della celebre novella di Gertrude von Le Fort, "L'ultima al patibolo", subisce il fascino del soggetto con tale violenza, che lo rielabora si può dire totalmente, e qua sfranda, là aggiunge, più in là trasforma o sopprime affatto, ne fa insomma cosa sua, un'altra opera che gli appartiene di diritto. A un anno dalla morte dello scrittore, Albert Béguin, attratto dalla particolare intensità del dialogo, lo vede nella misura del palcoscenico e con pochi ma profondi tagli essenziali lo riduce per le scene e lo affida a Marcelle Tassencourt, che lo allestisce con grande asciuttezza e ne fa un dramma senza equivoci e ne ottiene un concorso di folla senza confronti.
Il fatto è preso dalle cronache sanguinose della Rivoluzione francese e riguarda il sacrificio delle sedici carmelitane di Compiégne, ghigliottinate a Parigi il 17 luglio 1794. Ma alla prima scoperta operata dalla Le Fort, con la scissione di una suora, la più giovane, realmente esistita, in due personaggi, due novizie, l'una tutta letizia e quiete in Dio, l'altra ossessa dalla paura della morte, Georges Bernanos ne ha aggiunta una, ben più radicale: le voci dei caratteri e il loro concerto drammatico, esteriore e interiore, su cui domina e canta il pensiero della morte.
"L'ultima al patibolo" è la trasposizione scenica di un sentimento elementare dell'uomo, che Bernanos nutriva in sommo grado: l'angoscia della fine, che nella fede dello scrittore si colora di luci oltremondane. La preoccupazione di non restare fedele sino in fondo alla propria dignità, all'insegna che s'è prescelta, lo tormenta assiduamente, lo spinge a cercare coi suoi personaggi un motivo di speranza, una buona soluzione, la strada della salvezza, a morire e a vivere con essi. "L'ultima al patibolo" è la storia e l'illustrazione di questa ricerca.
Una giovane aristocratica, Bianca de La Porce (il nome è sintomatico), vive in continuo terrore. Mentre i tempi precipitano e l'uragano sta per abbattersi sulla Francia dei Capetingi, Bianca si sente come un coniglio tra i lupi. Poco innanzi, investita dalla folla, ha passato attimi orrendi dietro il finestrino, fragilissimo scudo, della carrozza gentilizia, su cui si trovava. Invano il fratello, Cavaliere del Re, si sforza di aiutare la ragazza a fingere una fierezza che non ha. Rientrando nella propria stanza, ancora in preda all'incubo, l'ombra di un servo sulla parete la fa urlare di terrore, provoca l'intervento del vecchio Marchese suo padre, che vorrebbe ridurre al minimo l'incidente. Ma proprio da questo
tentativo, Bianca è come richiamata a se stessa, come indotta a guardare nel fondo di sé; e prende la sua decisione; la paura le suggerisce un asilo, dove lo spirito, il senso di comunità, potrà sovvenirla. Entra novizia al Carmelo. Dio dunque la guida, senza che essa se ne renda ben conto, a una milizia in apparenza meno dura di quella armata, ma non meno ardua e più esigente, perché richiede in ogni caso il sacrificio di sé nella testimonianza della fede. Un invito del fratello a lasciare il convento e a porsi in salvo dalla plebaglia, prima che sia troppo tardi, la lascia più che mai nella sua decisione.
Al Carmelo, la veneranda Priora la circonda della sua attenzione, intende nella volontà di Bianca di intitolarsi all'Agonia di Gesù il segreto pensiero della novizia e, poiché l'affanno, che è anche il proprio, assume ai suoi occhi un grave aspetto, prima di spirare la religiosa affida la giovane alla Vicepriora, Madre Maria dell'Incarnazione, perché la sorregga e la rechi a buon porto.
La fine della Priora è vilissima: tutta una vita spesa in preghiere e meditazioni edificanti si chiude in una miseranda agonia. Sembra che tutto il terrore del mondo si riversi in questa fine, quasi a smentire una fedeltà o ad assumerne il peso in luogo d'un'altra creatura. Bianca ne è sconvolta. Pure, un barlume, piccolo per la distanza, sconfinato nella essenza, brilla nel buio. Lo smarrimento di Gesù dinanzi alla morte non risponde a quello degli uomini che Egli è venuto a salvare? Fittamente, benché oscuramente, la giovane intravvede un segno dell'Evento, forse un soccorso o — chissà — un assenso.
Lei non sa, non vede. Le è accanto una mirabile creatura, un essere che la terra e il cielo sembrano aver cooperato a foggiare, tanto è denso il suo umore e ariosa la sua fantasia, tanto concreta è lei nel suo « credo » e lesta nei suoi movimenti, una creatura di gioia e di luce che sembra fatta apposta per spronar Bianca e mostrarle l'altra faccia del suo destino: Suor Costanza, l'altra novizia. E Bianca non sa ancora, anzi se ne irrita; proprio come un coniglio spaurito, artiglia chi per affetto non lo prende per gli orecchi.
La Rivoluzione la stana.
L'editto del 28 ottobre 1789 sospende i voti monastici; ciò malgrado, le due novizie prendono il velo. Poco dopo, la comunità viene sciolta. Il voto del martirio, già rifiutato dalla nuova Priora, sennata interprete di una autentica ortodossia, (ogni martirio presuppone un carnefice, quindi un dannato), è riproposto ora da Madre Maria, rimasta sola a guidare il gruppo. Una sola opposizione lo potrebbe annullare; ed è Costanza a sollevarla, per togliere Bianca dal tribolo di un impegno così solenne. Ma Bianca fugge ugualmente. Nella calma dimora, dove Madre Maria l'ha seguita, essa apprende la sorte delle compagne. Travolte dall'odio rivoluzionario, le carmelitane sono arrestate, processate e condannate a morte. Gli ultimi istanti della comunità trascorrono in mutui incoraggiamenti. Ma nell'ora suprema, sulla piazza del martirio, una sola volontà le anima; far testimonianza a Dio della loro fede. La Priora è con loro; Madre Maria, convinta dal cappellano del convento a non forzare i disegni di Dio (sarà infatti la memorialista dell'eccidio), è lontana. E le suore salgono il patibolo cantando il Veni Creator. Una sola manca: suor Bianca. Ma l'ultima voce s'è spenta appena, che un'altra ne sorge dall'altro angolo della piazza, avanza sempre di più, si fa sempre più chiara e più ferma. È suor Bianca, finalmente libera, che sale, anch'essa cantando, incontro al supplizio. La lunga attesa è finita, la lotta è risolta con la vittoria del più debole; la morte pietosa della vecchia Priora, l'offerta della giovane Costanza al momento del voto, hanno come scambiato i panni con quelli della terrorizzata Bianca.
Ancora una volta, una misteriosa compensazione ha attuato la riversibilità dei meriti: l'Agonia di Gesù, che si ripete al capezzale di ogni credente, ha contato e fruttificato anche per lei.
Bisogna riconoscere che una volta tanto il Cinema ha fatto al Teatro un bel dono. Chi avrebbe mai pensato alla possibilità di un Bernanos così scattante, così denso e nello stesso tempo così limpido, malgrado la densità? Un Bernanos che, lungi dall'avviluppare i personaggi in sottintesi e in cupi riflessi, li lasciasse così liberi di pensare, di muoversi, li amasse a tal punto da rischiare di compromettersi? Con tutto il rispetto per i palati difficili, sia benedetto un tal rischio. Non a torto il Béguin, che primo ha rivendicato i "Dialoghi delle Carmelitane" con una finissima riduzione, ha parlato di capolavoro. Il cinema, con le sue necessità di linguaggio elementare e immediato, ha costretto l'autore di Monsieur Ouine a puntar tutto sul dialogo e lo ha così indotto alla cura artigiana del carattere. Sono i caratteri, e cioè i personaggi, delineati con mano maestra, a dare all'opera il suo tono drammatico, al tema il suo rilievo e il suo volto preciso. Gli avvertiti strepiteranno; a me è piaciuto, perché questa è la via dell'arte.
Detto questo, niente vieta di ammettere che alcune parti del testo, in funzione cinematografica, non aggiungono nulla, anzi tolgono, alla drammaticità dei dialoghi. In particolare, la scena della Conciergerie, tra i condannati, risulta affatto superflua. Una coraggiosa infedeltà sarebbe stato il modo più spiccio di serbare al testo la vera fedeltà. Un altro appunto che è stato fatto e si può fare allo spettacolo è la sovrabbondanza delle musiche e dei cori: sfoltire le une e gli altri, sostituendo magari un « coro » alla scena incriminata, per opportunità pratica, gioverà indubbiamente. Forse, a questa sovrabbondanza il Costa è stato indotto dall'ampiezza del luogo dello spettacolo, la monumentale chiesa di San Francesco, così vasta da richiedere il connettivo dell'ausilio sonoro. Per ovviarvi, si sarebbe dovuto rinunciare al palco alla Copeau, così comodo per le evoluzioni dei singoli attori e adattato al tempio da far l'illusione di essere nato con esso.
Il merito del Costa, oltre all'orchestrazione generale, è nell'aver descritto i personaggi con tratti decisi e nell'aver manovrato i « cori » (suore e « sanculottes ») come non si poteva meglio. Nel primo capitolo il regista ha avuto per sé lo scavo sapiente di Evi Maltagliati, che ha tenuto il personaggio della vecchia Priora in un diagramma di progressiva tensione sino all'orribile agonia, guadagnandosi l'applauso; la sobria robustezza e il bel timbro di Tino Carraro nel Cappellano; la dignità del Busoni nel vecchio Marchese; la bella figura e il piglio alacre del Vannucchi nel Cavaliere; l'intelligente duttilità di Anna Maria Miserocchi per Bianca e il fervido slancio della Aldini per Costanza; ma, soprattutto, l'aperta, chiara, cordiale, comunicativa solidità di Ave Ninchi, alla quale si deve con la sua Priora la zona più ghiotta dello spettacolo: un lungo applauso a scena aperta gliel'ha dimostrato. Nei punti di raccordo e nelle scene di insieme la schiera dei giovani lo ha servito splendidamente: alcuni quadri erano esemplari per equilibrio e agevolezza di rapporti. Quando nella penembra un'ombra s'è levata dal basso, cantando, suor Bianca, una profonda commozione ha invaso il pubblico.
Fuori, il diluvio.

 

ACHILLE Fiocco Teatro Scenario, Roma,  1 Ottobre 1952




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