La recensione
Un dramma moderno, scarno, introspettivo
Dopo II Poverello di Copeau quest'anno è stato allestito nello scenario della piazza, del Duomo di San Miniato un altro dramma «sacro» francese, Giovanna e i Giudici di Thierry Maulnier. L'autore, nato nel 1909, è persona assai rappresentativa nella vita letteraria di Francia, soprattutto per la risonanza che hanno avuto i suoi saggi critici pubblicati sul figaro Littéraire e sulla Table Rande; ma chi conosce il particolare umore della letteratura francese contemporanea o da poco passata (nei suoi poeti e scrittori più o meno «cattolici» o «esistenzialisti») poteva immaginare che il soggetto scelto da Maulnier, carico di leggende e non privo di rielaborazioni illustri come quella della tragedia di Shiller, si sarebbe ancora prestato ad una di quelle feste letterarie che, anche se mosse da un interesse morale profondo, non sanno
rinunciare ad una certa «cantabilità», potremmo dire, e a quel gusto della suggestione che offre spesso il fianco ad accuse di insincerità.
Poteva essere facile, insomma, trattandosi di un drammaturgo francese alle prese con un soggetto francese, ritrovare in Maulnier molti di quegli aspetti esteriori, sensuali e succosi, che, pur nel vaglio di personalità diverse come quella di un Claudel o di un Mauriac, sembrano costituire una specie di generico fondo, di indole, degli scrittori francesi dei primi cinquant'anni del Novecento.
Thierry Maulnier, invece, senza rinunziare alla sua acutissima intelligenza letteraria, ha fatto della sua Giovanna un dramma moderno, scarno, ragionante, che si muove secondo un meccanismo psicologico sottilmente veloce, e attrae non
per effetto della parola o di dorate similitudini barocche, ma per una specie di virtuosismo introspettivo, talvolta condotto all'esasperazione. Forse proprio perché questo dramma invita — nell'attimo stesso in cui si svolge davanti agli occhi dello spettatore — ad un ripensamento di problemi etico-religiosi interessantissimi (quelli di una libertà tragica e riscattante) si potrebbe parlare di una vicenda nata per esser letta, più che rappresentata. Ma questo non intacca il valore globale dell'opera che mostra, del resto, un'adattabilità scenica direttamente legata alla sua organicità di struttura, con personaggi ben delineati e mossi da una vigorosa respirazione.
Giovanna, la pulzella d'Orléans, è nelle mani degli Inglesi. Tre «giudici», uomini di Chiesa, la tengono stretta fra le domande; c'è chi la minaccia e chi sa essere paziente, chi vuole convincere attraverso un'accorta politica dell'anima, chi tagliar corto e passare alle torture. La prigioniera non ha che l'aiuto delle voci celesti che sente (di Santa Margherita, di Santa Caterina e dell'Arcangelo Michele), e cerca di resistere. Ma la lotta di Giovanna, natura umana nobilissima e pur caduca, si fa sempre più difficile perché nasce in lei un minaccioso terrore: è il rogo, la paura della morte che la fanno alla fine cedere.
Si può gridare la verità, sentirsi aiutati dalle creature celesti; ma l'essere stati scelti per una missione, non dispensa dal sacrificio, non da privilegi. Solo la sofferenza, l'ingiustizia contro l'innocenza lanceranno nel mondo la parola liberatrice: anche Cristo, che come uomo ebbe paura della morte, soffrì sulla croce e riscattò gli uomini. Invece Giovanna ha ceduto: l'hanno costretta a riprendere gli abiti femminili, a dichiararsi colpevole di disobbedienza alla Chiesa.
In questo difficile tema, che costituisce la prima parte di Giovanna e i Giudici, Thierry Maulnier ha dato forse il meglio delle sue doti di poeta. Tutto è essenziale alla vita dei personaggi, con un linguaggio che ricorda quasi la sottigliezza delle Provinciali pascaliane e stabilisce rapporti chiarissimi fra le figure dei «giudici» (uomini in fondo tragicamente incerti, anche quando sembrano snervanti indagatori) e quella della Pulzella, tutta vibrante di accentuazioni diversissime. E nel veloce dialogare delle due parti si introducono le voci celesti: tratteggiate con una tonalità che tende a sfumare la loro funzione di «personaggi» per dar loro accenti di lirica corale. Anche il linguaggio poetico si arrotonda; tocca allora con dolcezza la musicalità di similitudini come quella della madre che porta stretto contro il petto il figlio morto «perché il freddo non lo ghiacci troppo presto» o come quella del cuore dell'uccellino che batte disperatamente nella mano che lo soffoca.
Giovanna in carcere deve subire, ancora dopo avere abiurato, le ingiurie di un soldato: e questo riporta la fantasia dello spettatore sul piano di un'umanità disadorna, eppur terribilmente sincera: è la voce dell'uomo pronto a commuoversi davanti alla tortura, e che tuttavia è curioso di vedere gli spasimi del moribondo; e lo crede a lui superiore
soltanto se ha il coraggio di morire. In questo richiamo alla realtà di tutti i giorni, alla folla che grida «al fuoco» — «non per cattiveria», come dice il soldato «ma perché ci sarebbe piaciuto vedere lo spettacolo» —; all'uomo pronto a dimenticarsi della sua ammirazione timorosa per abbandonarsi alla gioia di un abbraccio femminile, Maulnier costruisce la «scelta» del martirio, che caratterizza la seconda parte del dramma. Nasce, forse con una certa crudezza drammatica, la figura dell'«altra Giovanna», la guerriera e la martire che andando incontro al martirio ritorna prodigiosamente fanciulla. Ora soltanto i Santi possono andarle incontro, accompagnandola per l'eternità, mentre l'atmosfera dissipa le nebbie della stanchezza e del sonno umano e si risolve in preghiera: perché «Dio non ama chi non ha mai dubitato».
Per la realizzazione del recente lavoro di Thierry Maulnier (che fu rappresentato per la prima volta sul Sagrato della Cattedrale di Rouen il 29 maggio 1949, ed è novità assoluta per l'Italia) sono stati scelti interpreti di indubbio valore. Vivi Gioì, nella parte di Giovanna, ha recitato con nobile aderenza drammatica, raggiungendo nella varia tonalità della voce (bellissima la modulante dolcezza delle ultime battute) e nell' asciutta, femminile figura, una sicura immediatezza espressiva. Fra i giudici assai introspettivo Carlo D'Angelo, e buoni attori Vittorio Sanipoli e Giancarlo Sbragia. Ottima l'interpretazione data da Salvo Randone alla figura del Soldato, condotta con rara naturalezza di gesti e proprietà di dizione. Per quel che riguarda la regia di Guido Salvini, assai appropriati l'orientamento del palcoscenico e certi movimenti di colore; ma forse l'aver voluto troppo «visualizzare» i personaggi celesti (con apparizioni anche macchinose sul campanile del Duomo e negli occhi della facciata) se ha contribuito in qualche modo allo «spettacolo» ha diminuito quel senso di pure voci corali che sembra sia stato destinato dall'autore a Santa Caterina, a Santa Margherita e all'Arcangelo Michele. Buona, comunque, la recitazione di Stella Aliquò, Anna Miserocchi e Gabriele Ferzetti.
Non molto appropriata la figura di Edda Albertini, per l'«altra Giovanna», pur condotta con accortezza. Buone le figure minori interpretate da Cesare Calvelli e Gianni Bonagura.
All'organicità dello spettacolo hanno contribuito anche i cori istruiti e diretti dal M.o Giuseppe Piombini, i costumi di Gianni Vagnetti e l'allestimento scenico di Libero Petrassi.
Applausi a scena aperta sono stati tributati dal numeroso pubblico presente. Molte felicitazioni all'autore, che era presente alla rappresentazione.
LEONARDO PINZAUTI, Il Mattino dell'Italia Centrale, Firenze, 19 Agosto 1951
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