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La recensione di Massimo Dursi
 

La recensione

 

Le Furie prendono dimora in un salotto borghese

Ritorna Thomas Stearns Eliot sul colle di San Miniato. L' altra volta, nella estate del '59, venne con il non dimenticato "Grande statista" nella regia di Luigi Squarzina e nella scenografia di Luciano Damiani. Opera di levigatezza cristallina, frutto dell'età matura in cui le certezze definitive — quando si riesce a giungere a tanto — si esprimono in una limpidità di linguaggio che ha l'apparenza dell'umiltà. Allora i temi sembrano sminuirsi perché la conquista s'è fatta totale e ne possono dare testimonianza piena e solenne anche, o soprattutto, gli episodi e i protagonisti meno insoliti della vita quotidiana.
Già lontano il tempo delle folgoranti illumuiazioni, degli itinerari combattuti ad ogni passo riempiendo la selva dei colpi e delle grida della ansiosa vittoria. Si è imparato che la prova suprema viene riproposta ad ogni semplice azione, che il drago si incontra ad ogni angolo di strada, e i conflitti definitivi non sono necessariamente i più clamorosi, si annidano bensì nell'equivoco mercato della coscienza. Ma bisogna essere giunti ben dentro il territorio da conquistare o liberare per possederne le sorgenti, agli inventari delle cose comuni per scoprirne i nessi irrevocabili con l'assoluto, al riepilogo delle ore indifferenti per ritrovarne i germi dell'eternità. È questo l'Eliot dello Statista.
"Riunione di famiglia", di vent'anni prima, ci rida l'Eliot percosso e trascinato dalle prime infuocate rivelazioni, che vuoi misurare col mostruoso e l'ignoto. Risale alle origini religiose del teatro, riconquista le tre unità intese come il confluire di ogni tempo e luogo in una meta divina. Tragedia pre-eschilea, si è detta: colta al suo discender dall'Olimpo, da cui lo scetticismo disgregatore della «maturità» euripidea lo allontanerà per sempre. Ovviamente in Eliot l'ispirazione discende sì dal ciclo, poi passando per un Olimpo di cultura straordinariamente esperta che a volte lo induce in tentazioni letterarie, come quando la voluta concentrazione di linguaggio e dei simboli moltiplica i significati, li ripete in toni variati e indugiando in brezze liriche. Ma stiamo discutendo anche su una traduzione: benemerita per le difficoltà che ha dovuto risolvere, tuttavia inevitabilmente, fatalmente approssimativa.
Veniamo all'argomento, che nonostante l'immobilità della azione (tutto è successo, tutto succederà) non è facile riassumere anche per la diversità dei piani su cui si svolge. Harry torna a casa, a Wishwood dopo otto anni che ne era partito — o fuggito. Wishwood non è solo un luogo del mondo, ma un mondo, se non il mondo; dove si seguita a
disgiungere le cose perché non si rivelino riunendosi, a dare importanza alle piccole perché nessuna ne abbia, dove anche il tempo viene sminuzzato in avvenimenti incomunicabili; dove insomma l'assoluto e l'eterno sono ripudiati o ignorati. È il mondo detto normale, irreale invece poiché limitandosi nel tempo e nelle cose si sottrae alla unificatrice realtà che lo sovrasta.
Amy, madre di Harry, custodisce quel luogo: «Non voglio che l'orologio si fermi nel buio — dice —. Tengo Wishwood in vita per tenere in vita la famiglia». Quella che lei crede vita. Harry torna perché ha perduto la moglie che lo tenne lontano. Ora confessa: l'ha uccisa. Spinta in mare dalla nave. Perché? Quando giunse la notizia di quella che si pensò una disgrazia, Maria, che Amy aveva destinata a moglie del figlio, la credette maturata nella mente di Amy stessa. Harry fu strumento di una volontà omicida che mirava a recuperarlo? Pure il padre suo aveva meditato l'uxoricidio, impedito dalla cognata, Agata, la quale più ancora della sorella, di cui era diventata rivale, volle salvare Harry che stava per nascere.
Una eredità sanguinaria, per il povero Harry. Inutile la sua fuga, fantasmi lo inseguivano, portava dentro di sé Wishwood stessa. La moglie gli appariva forse la causa del fuggir senza meta. Ubbidì alla volontà di Wishwood. Tornava ora al punto di partenza per l'assurda convinzione di ricominciare a vivere. I familiari — ad eccezione di Agata e di Maria, che stanno ai confini della verità, in una specie di limbo — non accettano il delitto, una «anormalità» frutto solo di fantasia malata. Allucinazione spiegabile senza rischi. Wishwood risanerà Harry. Harry ha invece rotto il cerchio fatale, uscirà da quel luogo, ha trovato il senso della realtà vera davanti alla quale si rivela ombra ciò che si credette reale. E libera gli altri dall'incantesimo, o insegna loro la strada della liberazione anche se inutilmente. Si carica del fardello di tutti. «È possibile — gli dice Agata — che il peccato lotti nella sua oscura nascita istintiva per arrivare alla coscienza e trovare così purgazione. È possibile che tu sia la coscienza della tua infelice famiglia, l'uccello che manda in volo attraverso la fiamma purificatrice». Le Eumenidi gli fanno strada nel pellegrinaggio verso la redenzione. Sarà sicuro con loro, solo con loro. A Wishwood l'orologio si ferma nel buio. Amy muore.
«Quelle non fanno alcun male, sulla mia parola» dice l'autista di Harry delle Eumenidi. Le aveva viste al loro apparire, prima ancora del padrone, ne parla come di gente ormai di famiglia, della vera famiglia di Harry. L'ironia paradossale di Eliot libera dalle convenzioni quei personaggi che in altro autore sarebbero di contorno, li coinvolge coerentemente nella realtà assoluta, ne fa addirittura i naturali interpreti o strumenti. Non ci possono essere personaggi di contorno, coloro che stanno apparentemente al margine della vita in attesa e in silenzio la sanno tutta prima di chi vi si dibatte come preso al laccio. (L'autista sapeva già prima di lui che Harry sarebbe ripartito).
L'impegno di questa opera — ripetiamo — è strenuo: ogni insidia scenica è accettata, l'ingegno e l'arte eliotiani vi si misurano fino al virtuosismo. La solennità tragica è sottolineata dal sarcastico disegno del mondo di Wishwood, da cui trapela ora lo stupore, ora lo smarrimento, infine la disperazione. La vita si costruisce su vari piani cercando l'incomunicabilità. Tema di grande suggestione al quale si giunge tuttavia, nello spettacolo, attraverso l'umiltà. A Mario Ferrerò va questo merito. Una regia la sua che per non sovrapporsi all'autore — e cioè frapporsi fra noi e lui — monda il gioco degli effetti dalle superfluità adorne, sfuggendo perfino le lusinghe della fantasia: e pure questo è un elogio. (La sua fedeltà l'ha perfino imbarazzato nell'evocare le Eumenidi per accettar quelle tende che si aprono e chiudono indicate dalle didascalie. Avremmo preferito grandi ombre vaganti  proiettate  intorno,  ma  forse  peccando  di  presunzione).
Lo spettacolo che si svolge nella monumentale chiesa di San Francesco, su un vastissimo e spoglio praticabile mosso da una ampia gradinata, ha avuto un felicissimo successo. Recitazione tesa e insieme sospesa, quale una lenta, angosciosa presa di coscienza; una lotta per liberarsi e rivelarsi in cui Luigi Vannucchi (Harry), Elsa Albani (Agata), Rossella Falk (Maria) si misurano con ansia purificatrice che raggiunge una limpida e casta esaltazione. Veramente bravi. Ed eccellenti Laura Carli (Amy), Nora Ricci, Maria Teresa Albani, Manlio Busoni, Edoardo Toniolo, Corrado Annicelli, Salvatore Puntillo, i personaggi di quell'altro «piano», che resistono aggrappati a Wishwood nel rifiuto o nella incapacità di superarsi: parti ardue dove, come dicemmo, ironia e smarrimento si alternano in sapienti contrasti. Assai bene Piero Sammartano (l'autista) a cui tuttavia si è attribuita una magia da angelo custode che ci pare, se non erriamo, non gli spetti. Belle musiche di Roman Vlad commentano la vicenda.

MASSIMO DURSI II Resto del Carlino, Bologna, 26 Agosto 1964




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