Una ricerea di autenticità in un mondo convenzionale
Ci ha detto Eliot, per bocca di un suo personaggio: «Quel che abbiamo scritto non è un racconto poliziesco di delitto e di castigo, ma di peccato e di espiazione»; e ci è sembrato, in definitiva, il commento critico più appropriato, oltre che autentico, di Riunione di famiglia — The family reunion — il dramma eliotiano che abbiamo ascoltato stasera, nella monumentale chiesa di San Francesco sanminiatese, celebrandosi la XVIII Festa del teatro organizzata dall'Istituto del Dramma Popolare.
Di Thomas Stearns Eliot, le precedenti Feste del teatro ci avevano offerto nel 1948 Assassinio nella cattedrale (debutto drammatico per il poeta anglo-americano, quasi la ribellione di uno spirito classico ed etico all'amorale naturalismo, allo scaduto linguaggio di certo teatro moderno in auge), e nel 1959 II vecchio statista (opera che, ultima in ordine di creazione, ci fu consegnata da un Eliot vittorioso sul concetto di amore profano, tanto da sottolinearlo e persin definirlo, là dove nelle opere precedenti ne aveva parlato in termini di quasi irraggiungibilità). Con Riunione di famiglia si fa, per così dire, un passo indietro nell'itinerario eliotiano; e non è davvero un passo inutile, anche se dobbiamo rilevare che qui il poeta, ubbidendo alla ispirazione controllata da un impegno morale e da un rigore formale eccezionali, non può evitare che la poesia — e quel suo linguaggio a molte dimensioni — soverchi, e talora uccida, l'azione.
Nell'opera di cui parliamo, c'è il supremo appello alla virtù redentrice della sofferenza, intesa come ansia di espiazione e di purificazoine dalla colpa: «È possibile — vien detto al protagonista — che tu sia la coscienza della tua famiglia, l'uccello che essa manda in volo verso la fiamma purgatoriale». E colui dirà: «So che vi è soltanto una via per uscire dalla contaminazione: la via che conduce infine alla riconciliazione».
Vediamo l'ordito del dramma. A Wishwood, una vecchia dimora di campagna in Inghilterra, la famiglia s'è riunita: si tratta di festeggiare lady Amy, colei che esiste ormai soltanto per tenere in vita il nucleo familiare, ed insieme di accogliere il figlio maggiore, Harry, che sposandosi contro la volontà dei suoi abbandonò la casa molti anni prima. La moglie è morta ormai da un anno, spazzata via dal ponte della nave durante una traversata: Harry ha finalmente accolto il richiamo, tornerà alla vecchia dimora ed alla madre che l'attende. Ma dalle prime parole che pronuncia, vengono confermati i timori che i parenti già avevano velatamente espresso: confessa che fu lui, a spingere in mare la moglie; che da tempo un incubo lo attanaglia: le Erinni sono ormai le sue compagne, turbano i suoi sonni, lo tormentano. Si teme della sua sanità mentale; si arriva ad interrogare il servo per aver conferma della sua confessione, ma non si ottengono che risposte vaghe; qualcuno giunge ad avanzar l'ipotesi che soltanto il desiderio di sbarazzarsi della moglie, la quale troppo lo teneva legato a sé, abbia finito per convincere Harry che l'atto fu realmente compiuto.
Harry, roso dal suo tormento, è forse tornato ora per trovarsi al punto di partenza, per cancellare quanto è accaduto; ma non può, non riesce ad avere requie. Dal vecchio medico di famiglia, che non gli da risposta, dalla zia Agata (la più giovane delle sorelle di lady Amy), egli vuoi conoscere chi fu in realtà suo padre; egli presentisce, nella violenza commessa o solo desiderata verso la propria moglie, soltanto una «ripetizione». Così è, infatti: la zia gli rivela che suo padre, costretto a vivere pressoché in solitudine con una moglie che lo dominava, in quella vecchia dimora di campagna, si era concesso proprio con lei, Agata, una non platonica evasione.
Fu allora che egli desiderò di liberarsi della moglie; fu ancora lei, Agata, che impedì la realizzazione dell'insano progetto, e così facendo diede in sostanza una seconda vita ad Harry, che già era concepito nel seno materno di Amy. Altre parole ha ancora zia Agata per Harry: parla essa di fardello pesante, di espiazione alla quale è necessario andare incontro con animo lieto. Il passato di tutti grava sul loro presente, e il presente si proietta su un futuro dove l'angoscia e la rinuncia sono rinascita a vita. Soltanto in tal modo, finalmente, le Erinni si trasformeranno in benigne Eumenidi. Così Harry partirà, accogliendo l'eco delle parole di Agata, e non sarà una fuga ma un'espiazione: «In un mondo di fuggiaschi, la persona che prende la direzione giusta, sembra che fugga». È una missione la sua, forse si farà missionario (anche Celia, in Cocktail party, donerà poi eroicamente se stessa alla vita missionaria); andrà comunque incontro al disegno di Dio, sempre inconoscibile nelle corte misure del tempo.
È dunque l'Eliot più autentico, questo di Riunione di famiglia: lo cogliamo allorché, mantenendo le modulazioni in una identica trama cristiana, passa dal clima eroico di Assassinio, a questo borghese, che proseguirà nelle sue opere successive Cocktail party, L'impiegato di fiducia, Il grande statista.
Il poeta sembra nato sotto il segno della rinascita: ogni suo motivo parte da una desolata constatazione di deserto e di morte («Tu non sai cos'è la speranza, finché non l'hai perduta...»), per officiare una fede intesa come intimo conflitto e perpetuo superamento («Dobbiamo imparare a soffrire di più...») e raggiungere un senso di riconquistata libertà, di purificata serenità («... se poteste comprendere, sareste pienamente felici di tutto questo»).
Vi è in quest'opera una qualche architettura greca — oseremmo dire che siamo al livello della tragedia greca intrisa di valori cristiani — come esteriormente risulta, oltre che dalla presenza delle Eumenidi, anche dal fatuo coro mondano ottenuto attraverso una sorta di sdoppiamento psicologico di taluni minori personaggi, le cui voci si uniscono per «sostenere che il mondo è quel che lo abbiamo sempre creduto». Un mondo oltremodo accomodante, che ignora l'itinerario di coloro che vogliono raggiungere una vita autentica, una personale purificazione.
Certo aristocratico simbolismo è insito in Harry, il protagonista che appare in concreto il vero e solo personaggio, talché tutto il resto sembra agire come un corollario che ne spiega e ne giustifica il dramma e la catarsi finale. Su codesto personaggio, che quasi trascendendo dai suoi limiti umani assurge a simbolo di una parabola incapace di essere circoscritta dallo spazio e dal tempo, Eliot riversa la sua squisita vena lirica e spirituale, che da una storia di anime sa trarre splendidi rilievi, e condurre alla sua conclusiva significazione.
Non si vuoi negare che simile opera — immersa com'è in una atmosfera da tragedia intcriore, epilogo di fatti esterni alimentati da un humus di parole che sono come il riflesso di un altro mondo — sia di non facile comprensione almeno per chi non abbia, attraverso una precedente lettura, meditato sulle sue verità. Discende da ciò, direttamente, quanto ardua sia la sua realizzazione, l'impegno di una regia e di una recitazione poste dinanzi ad un testo che è veramente un testo, dalle battute rigorose e indispensabili.
La regia di Mario Ferrerò, davvero ammirevolmente concepita, ha a nostro avviso offerto al dramma eliotiano una stimolante bellezza espressiva. Rinunciando quasi completamente all'elemento spettacolare ed all'invenzione contingente, ha concesso ai personaggi di vivere in un clima realistico, ma ha saputo trarveli — coerentemente trarli — allorché i punti-chiave dell'opera determinavano nell'azione un fluire fuori del tempo ed oltre il tempo.
Altrettanto intelligentemente integrata è apparsa la recitazione frivola e quasi consunta dall'uso, dei personaggi che rappresentavano le ordinarie modeste dimensioni del mondo, e quella di coloro — Harry ed Agata, principalmente — che ne configuravano la coscienza autentica. Un gioco di luci eccellente, un palcoscenico di rara profondità (Pier Luigi Pizzi ha realizzato una scenografia di classe, con quello «scivolo» culminante nella grande gradinata, soverchiata dalla finestra del coro), un commento musicale di scena discreto ed allusivo, hanno confortato l'opera registica.
L'esecuzione dei singoli è stata di livello notevole, oltre che aver risposto alle chiare concezioni del regista. Lode particolarissima va data ad Elsa Albani, per la trasognata chiarezza che ha saputo infondere al personaggio di Agata. Tutto, dalla sua maschera tragicamente espressiva alla sua dizione così significante, denunciava il processo intcriore del personaggio, perfettamente assimilato. Luigi Vannucchi, di Harry, ha reso i tormentati contorni del protagonista con buona efficacia, con un calore commosso che solo per eccezione è apparso in qualche modo forzato.
Rossella Falk, nel personaggio di Mary; Laura Carli che era lady Amy; Maria Teresa Albani, la sventata e divertente Ivy, hanno dato alle loro parti l'esatto rilievo, nella economia dello spettacolo. Ed assai bene hanno recitato Manlio Busoni, Edoardo Toniolo, Nora Ricci, Piero Sammataro, Corrado Annicelli.
Un pubblico sceltissimo, accorso oltre che da Firenze anche da altre città toscane, gremiva la monumentale Chiesa di San Francesco. Seguito con raccolto interesse, lo spettacolo è stato applaudito con molto calore, ed alla fine ha procurato calde acclamazioni al regista ed agli interpreti.
Uno spettacolo, va soggiunto, che rientra nel filo felicissimo della tradizione delle «Feste del teatro» di cui gli amici del Dramma Popolare sanminiatese possono essere a giusta ragione orgogliosi.
Allo spettacolo erano presenti l'on. prof. Giuseppe Togni, presidente dell'Istituto del dramma popolare, l'avvocato Verzili e il cav. Vallini, vicepresidenti dell'Istituto stesso, il sindaco di Milano, prof. Bucalossi con l'assessore prof. Cecchini, l'on. Lucchesi, il prof. Enzo Meucci, consigliere nazionale della D.C., l'avv. Scipio in rappresentanza del sindaco di Pisa, il Prefetto Sarro, il Vice questore e numerose altre autorità.
Arnaldo Mariotti, Giornale del Mattino, Firenze, 26 Agosto 1964
|