La recensione
Barabba e l'Altro
Barabba: un'apparizione rapida nelle pagine dei Vangeli, un grido scandito dalla folla. Nella tragedia del Golgota, la sua dimensione è quella di un'inconsapevole pedina. Il suo ruolo non va oltre la mediocrità dell'oggetto di scambio. Nei millenni, tuttavia, il suo nome si è perpetuato non solo a indicare la feccia dell'umanità ma anche l'emblema dello strumento ignaro di un'ingiusta giustizia, della giustizia inquinata da compromessi del potere. Barabba non è Giuda che tradisce e che, sopraffatto dal rimorso, si toglie la vita; non è Pietro che rinnega ma poi riprende il cammino per diffondere nel mondo la parola del Maestro. Barabba è un condannato a morte che riacquista inopinatamente la libertà: nulla ha fatto per sfuggire al supplizio, nulla ha fatto per mandare al suo posto, sulla croce, l'Altro, l'innocente.
Personaggio passivo nella storia del Cristo, Barabba diviene protagonista attivo nel dramma, a lui intitolato, di Michel de Ghelderode, ora andato in scena, quale prima rappresentazione in italiano, in occasione dei trent'anni di vita dell'Istituto del dramma popolare di San Miniato.
Lo vediamo in catene esaltare il crimine, la violenza calcolata, l'odio contro la società costituita: la pena capitale lo attende, ma non ha paura, perché anche questo fa parte del gioco, rientra nella logica di un sistema, da lui respinto ma non sconfitto.
Nel carcere hanno gettato anche un altro prigioniero, un pallido silenzioso prigioniero, quel Gesù di Nazareth sul quale pende l'accusa di nemico della nazione, di sovvertitore dell'ordine. Barabba lo guarda con commiserazione: un capo ribelle che ha predicato la dolcezza invece della violenza. Un debole. Un vinto. Ma, in ogni caso, un fratello di sventura, non un avversario. Inutilmente cerca di solidarizzare con lui: lo rivedrà soltanto quando — compiuti i giochi fra Erode Filato Caifa — verrà esposto alla folla, sobillata a dovere, perché venga espresso il verdetto finale: e la folla sceglie Barabba.
«Solo quando sarete condannati a morte potrete capire quanto è bello sentirsi vivi»: questa è la prima reazione dell'uomo Barabba. Ma subito dopo sopravviene la crisi: libero in nome di che? vivo perché? «E' sembrato che abbiano fatto del bene; ma per fare il bene hanno fatto del male. Hanno fatto il bene quando non dovevano farlo. Hanno condannato un uomo senza colpe, per salvarne un altro pieno di colpe. E io sono stato il burattino di questa gente e forse il loro complice». I giudici «hanno liberato il delitto», e Barabba ne è conscio, adesso: «Il delitto diventa legale. I malfattori saranno i giusti».
Il nemico della società si riconosce libero di una libertà senza senso, si scopre strumento di quella stessa società che egli avversa: non rimane che sollevare la folla, chiamare i poveri a riconoscersi in quel silenzioso martire che si è spento sulla croce: «i tempi sono compiuti siamo uomini nuovi» e che regni l'anarchia in un mondo troppo a lungo costretto nei confini dell'ipocrisia e dell'inganno. A spezzare lo slancio sovvertitore di Barabba sarà un pagliaccio che lo pugnala alle spalle, stupidamente, mentre già i rappresentanti dell'ordine stanno muovendo contro il ribelle. Non resta, al moribondo, che tendere la mano verso l'Altro, colui che è «morto per qualche cosa».
Composto nel 1928, il testo di Michel de Ghelderode stupisce oggi per l'attualità dei temi trattati e per il taglio stesso dell'azione. Attorno a Barabba e alla figura silenziosa di Gesù, si snoda tutto un fitto processo che coinvolge Giuda e Filato, Caifa ed Erode, gli apostoli tremebondi e gli spettatori indifferenti della più alta tragedia del mondo. E mi sembra che bene abbia fatto il regista José Quaglio — avvalendosi della stimolante traduzione di Pier Benedetto Bertoli — a spogliare lo spettacolo di ogni orpello archeologico: nella scena di Umberto Bertacca, rupestre e spigolosa, e accompagnati dalle severe musiche di Giorgio Gasimi, gli attori si muovono in abiti moderni o in stilizzazioni di costume (firmati anch'essi da Bertacca) dando il senso dell'atemporalità assoluta: giudice e vittime sono di oggi come di ieri e il Cristo rimuore ogni giorno e Barabba si ritrova ogni giorno padrone della sua inutile libertà, né sa che la Grazia può toccarlo nel suo ultimo anelito.
Regìa asciutta e concreta, quella di Quaglio, negata a superflue retoriche, come del resto l'interpretazione eccellente di Antonio Salines, un Barabba la cui vigoria espressiva è andata in crescendo senza flessioni. Sapientemente ha dosato la sfuggente figura di Caifa, colorandola di inflessibilità spieiata, Vittorio Sanipoli, mentre a Erode ha dato riverberi di mondana ironia e di cinismo pungente Carlo Hintermann. Un Filato aitante e militaresco, consapevole della propria responsabilità ma impotente a rifiutarla, è stato Felice Leveratto. Un Giuda smarrito, sconvolto, ossessionato dalla colpa ce lo ha dato Marcelle Bertini.
Francesca Romana Coluzzi è la Maddalena: e la vorrei, forse, meno declamatoria e più interiorizzata nella sua appassionata invocazione al Cristo morente. Degli altri interpreti ricorderò Patrizia De Giara, avida moglie di Giuda, Renzo Rinaldi, Giorgio Locuratolo, Laura De Marchi, Libero Sansavini, Euro Bulfoni, Luigi Cortopassi (nella muta parte di Gesù, un Gesù che è l'unica nota candida nei costumi degli interpreti) e Gianni Guerrieri che assolve con severa acutezza il compito dell'osservatore, tramutato, senza traumi in una sorta di radiocronista.
Successo caloroso (lo spettacolo si replica fino al 3 agosto ) che ha dato a questa trentesima «festa del teatro» la sua consacrazione, accogliendo un testo che il tempo non ha usurato, perché testimonia come negli uomini, credenti o non credenti, l'inquietudine del Cristo sia sempre presente.
PAOLO EMILIO POESIO, La Nazione, Firenze, 30 Luglio 1976
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