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L'Osservatore Romano - La recensione di Andrea Fagioli
 

Rivive sul palcoscenico la leggenda medievale di Parsifal

Un bagliore accecante. Tutto è compiuto. Parsifal ha innalzato la sacra coppa. È lui ora il nuovo custode del Graal e il sovrano di Monsalvage. Il cupo castello, dove il giorno è come la notte, ha ritrovato la luce. Il cavaliere incontaminato, «il puro e folle» ha chiuso la ferita di Amfortas, il «re pescatore». La piaga del peccato è stata risanata.
Una leggenda dalle origini oscure, in cui si mescolano elementi del vangelo apocrifo di Nicodemo con elementi celtici e orientali, vuole che il calice dell'ultima cena o il recipiente in cui Giuseppe d'Arimatea raccolse le stille di sangue grondate dalla croce fosse stato custodito in un castello, accessibile solo ai puri di cuore che ne avrebbero tratto la salvezza celeste. Le sue elaborazioni poetiche risalgono al XII-XIII secolo: fra le più importanti quelle di Chrétien de Troyes (Perceval, Li conte du Graal, 1190 ca.), di Robert de Boron (Ronian de l'estoire dou Graal, 1200 ca.) e il romanzo in prosa Lancelot, in Francia, e, in Germania, il Parzival di Wolfram von Eschenbach (1200-1210), al quale nel secolo scorso si rifece Wagner per il suo Parsifal.
La leggenda, riscritta dalla penna di Julien Gracq nel 1948 con il titolo Il re pescatore, ha trovato la sua ambientazione naturale nella medievale piazza del Duomo di San Miniato per la cinquantesima Festa del teatro.
Nel castello di Monsalvage si vive l'attesa di un evento. Il re Amfortas, custode del Graal, è lacerato da una putrida ferita: è il frutto del suo peccato, l'immagine della sua corruzione.
Niente possono le amorevoli cure della bella e giovane Kundry, la donna che prima ha condotto il re sulla strada della perdizione e che ora lo assiste «sospinta non da un sentimento di espiazione — come spiega don Luciano Marrucci, direttore dell'Istituto del dramma popolare —, ma da un affetto accompagnato da profonda pietà». Il mago Clingsor, che aveva indotto Kundry a circuire il re pescatore, propone alla donna di impiegare la sue grazie, come ha fatto con Amfortas, per corrompere anche Parsifal, il giovane cavaliere errante alla ricerca del sacro Graal, ma Kundry, in un estremo gesto di orgoglio e di riscatto nei confronti del perfido mago che l'ha raggirata, si nega all'insano progetto.
Intanto, Parsifal, «l'incontaminato», è alle porte della città. Nemmeno Trevrizent, l'eremita che vive in preghiera e meditazione sulla sponda del lago, riesce a dissuadere il giovane dalla folle impresa: «Sei un bambino stordito, ebbro della tua giovinezza. Lascia questa via che non è quella giusta». Il vecchio saggio cerca di spiegare che è meglio seguire Dio secondo un tragitto ordinario, senza lasciarsi esaltare da folli sogni di gloria. Ma di fronte alla caparbietà del cavaliere, che ha fatto della solitudine la regola della ricerca, Trevrizent non può fare altro che benedirlo e indicargli la strada di Monsalvage.
«Nelle mani impure del re — spiega ancora Marrucci — il Graal è una luce spenta: nelle mani di Parsifal tornerà ad irraggiare in Monsalvage e nel mondo la luce di salvezza. In questo caso il vecchio re verrà risanato, la sua piaga, grigia icona del peccato, si cicatrizzerà, però egli dovrà consegnare il suo scettro, rassegnarsi a vivere nell'ombra, per sempre». Amfortas non ci sta: meglio «la spina dolorosa del peccato che vivere risanato, ma dimenticato da tutti».
Il re, per cacciare Parsifal, fa balenare nella mente del giovane cavaliere l'idea che anch'egli possa essere contagiato dalla stessa malattia. Ma è Kundry, attraverso il giullare Kaylet, a scongiurare Parsifal perché non rinunci al suo sogno. E così, in quella stessa notte, un Amfortas profondamente cambiato, rivela al cavaliere errante che il Graal è custodito nel castello di Monsalvage e che sarà proprio lui il predestinato a prenderlo nelle proprie mani. Parsifal sarà il nuovo re, ma Amfortas lo avverte: «È terribile per un vivente essere chiamato da Dio a respirare la sua stessa aria».
Più bella nella trama che nella forza drammatica del dialogo, la leggenda del re pescatore rivisitata da Gracq e andata in scena in prima nazionale a San Miniato con la traduzione di Annuska Palme Sanavio, ha trovato la sua carta vincente nell'estro di Krzysztof Zanussi. Salito per la seconda volta sul colle della splendida cittadina toscana in provincia di Pisa, Zanussi ha sfruttato, forse per la prima volta dal 1947 (anno di nascita della Festa del teatro), ogni angolo della storica piazza del Duomo che ospita questo festival teatrale unico nel suo genere. Il cinquantasettenne regista polacco ha ricreato (utilizzando al meglio i suggestivi sfondi naturali) castello, foresta, lago e campo di battaglia. Ha portato in scena cavalli e cavalieri, il tutto con una visione cinematografica in uno schermo immaginario di 360 gradi.
Non nuovo a queste soluzioni, Zanussi già nell'85, proprio a San Miniato, come supervisore alla regia del «Giobbe» di Karol Wojtyla, offrì di quel testo giovanile del futuro Papa Giovanni Paolo II una drammatizzazione a dir poco sorprendente scegliendo uno spazio scenico inconsueto per San Miniato (la piazza del Seminario con le sue gradinate, i suoi palazzi e i cento metri di strada che l'attraversano) ed una serie incredibile di suggestive invenzioni (dalla rampa di scale che si trasformava in una vera e propria cascata d'acqua, fino a reali principi d'incendio e a scorribande di auto e moto).
La visione, questa volta, si è dunque allargata e San Miniato ha rivissuto quella che lì chiamano la «splendida avventura della fantasia che sulla scena si fa vita» e che «ogni anno si rinnova e rinforza la comunione tra l'incanto della parola e l'entusiasmo della platea».
«Gli eterni pazzi», così Achille Fiocco definì quel «piccolo gruppo di fedeli del Cristo e del teatro, dai quali solo può scaturire nel mondo qualche cosa di nuovo», che nell'agosto del 1947, ricorrendo il patrono della città, San Genesio, che è anche il protettore degli attori, indisse a San Miniato la prima Festa del teatro.
Da allora sono passati cinquantanni. Cinquantanni che hanno visto cambiare il costume italiano e modificarsi radicalmente gli interessi del pubblico. Ma la Festa del teatro è ancora lì: piccolo lume, ma sul moggio, che ogni anno si dibatte nella difficoltà di reperire un testo teatrale che, come vuole il suo ideale statuto, sia inedito in Italia e di ispirazione cristiana, o quantomeno che affronti i temi dello spirito.
Ma anche per quest'anno è andata, il successo è stato pieno, nonostante, si è detto, un testo forse non all'altezza della situazione, innalzato però dalla genialità di Zanussi e sostenuto dalla recitazione di attori del calibro di Giulio Brogi, un grande Amfortas, e di Riccardo Garrone (Trevrizent, l'eremita). Con loro vanno ricordati Vincenzo Bocciarelli (Parsifal), Ludovica Tinghi (Kundry), Piero Caretto (Clingsor) e il bravo Francesco Meoni nella parte di Kaylet, il giullare del re.
Ovviamente un plauso va ad Aldo Buti e Andrea Travaglia che hanno curato, rispettivamente, scene e luci contribuendo in maniera determinante a una rappresentazione che ha momenti realmente magici.

ANDREA FAGIOLI, L'Osservatore Romano, Città del Vaticano, 24 luglio 1996




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