La recensione
Un odio che è sete d' amore
Il cozzo delle passioni così grandiosamente drammatico e, al tempo stesso, così profondamente umano tra Filippo II e il figlio Don Carlos aveva affascinato l'anima di Bruno Cicognani già alcune decine di anni or sono. I suoi studi sull'epoca e i suoi innumerevoli appunti sugli sviluppi, le reazioni, le luci e le ombre di quello che è passato alla storia come il più cupo e tragico conflitto fra padre e figlio, fra un quasi disumano rigore logico dettato dalla ragion di stato e la non meno fanatica ribellione ad essa promossa dagli istinti in un essere «creato debole», datano da quell'epoca. Studi e appunti furono ripresi in mano da Bruno Cicognani or è qualche mese e ne è nato il dramma Yo, el Rey, rappresentato questa sera nella Piazza del Duomo di San Miniato a cura dell'Istituto del Dramma Popolare e stampato in elegante volume nella «Biblioteca Sansoniana Teatrale».
Teatralmente grandi, non solo nel loro conflitto, ma anche se presi ciascuno per sé, questi due personaggi; giunti però fino a noi attraverso una serie di travestimenti leggendari e letterari — di cui i più noti sono quello romantico di Schiller e quello libertario di Alfieri — che avevano finito con lo svuotarli della loro personalità e ridurli a due schemi fissi, specie nella non bella tragedia alfieriana. NelPaccostarsi ad essi, nello studiarli, nel tentativo di sviscerare nelle due complesse psicologie l'essenza umana determinante dei loro atti, Bruno Cicognani si è liberato da qualsiasi ricordo gli potesse pervenire da precedenti, e sia pure classici modelli, e se li è messi davanti, con la loro anima nuda e dolorante, spesso sanguinante, di uomini che la sorte aveva fatto nascere l'uno dall'altro e che la morsa del destino, valendosi di due individualità opposte, mise durante tutta la vita l'uno contro l'altro, fino a portare il padre a un atto contro il figlio che il giudizio comune ha sempre dichiarato nefando. Dal conflitto, così come Cicognani l'ha visto e drammaticamente reso, doveva per l'appunto risaltare l'assoluzione o la condanna di Filippo II.
I due motivi principali, coi quali la letteratura precedente aveva creato un alone intorno alla figura di Don Carlos, erano il suo amore per la giovane, delicata e ridente matrigna Isabella, la figlia di Caterina de' Medici, che in un primo tempo era stata destinata in sposa a lui, ma che poi, diciassettenne appena, aveva sposato Filippo, non più giovane e già due volte vedovo, ma ancora bellissimo uomo nel pieno vigore dei trentacinque anni; e la sua simpatia per i ribelli fiamminghi, esaltati come eroi della libertà di pensiero contro lo spieiato fanatismo religioso di Filippo e della sua lunga mano, il duca d'Alba. Con molto coraggio dal punto di vista dell'effetto teatrale, Cicognani ha tolto al suo giovane principe questi due adornamenti, riconducendolo a una verità storica meno seducente e appariscente, ma che, in un certo senso, a un occhio acuto d'indagatore moderno, rende più interessante, se anche più cupa, la complessa personalità del discendente di Giovanna la pazza, e nipote di Carlo V. Resta dunque isolato, come materia del dramma, l'odio, l'odio del figlio verso il padre. Materia tremendamente pericolosa. Bisogna fissare l'individualità di Don Carlos di Cicognani intorno alla fiamma incandescente di quest'odio, fatto di sete di amore, di coscienza della propria incapacità volitiva e quindi di ribellione degli istinti contro qualsiasi coercizione, per non abbassarlo al livello di un paranoico monomaniaco e sessualmente anormale.
Di fronte a lui sta la figura anche più complessa e più difficile da rendere teatralmente viva, di Filippo II. I due opposti. Lo dice con la sua calma saggezza il Cardinale d'Espinosa: «Egli (Don Carlos) non lo sa, ma nel fondo oscuro che ciascuno ha in sé, misterioso, ove agisce l'informe, codesta cieca consapevolezza di essere l'opposto di voi determina quello che egli paurosamente sente sgorgargli da ignota fonte nel cuore e gli da il nome di odio». Filippo Re, (Yo, el Rey), Filippo padre, Filippo marito sono i tre aspetti sotto i quali Cicognani via via ci presenta l'enigmatica figura di questo sovrano, che la giovane moglie Isabella, nel suo candore ingenuo, definisce con una semplice frase: «la regalità è oltre l'umanità».
All'inizio del dramma, mentre i suoi gentiluomini lo attendono parlando di lui e delle sue follie, Don Carlos rientra eccitato e iracondo da una delle solite scorribande notturne. Il menestrello e buffone Tejoletas tenta di calmarne le furie, ma allorché un paggio annuncia la venuta del Grande Inquisitore, il Cardinale Espinosa, e questi entra nella stanza, il giovane per un futile motivo alza la mano armata contro di lui e poi immediatamente si accascia, chiedendo perdono. Questa estrema e incontrollata rapidità di passaggio da uno stato d'animo all'altro caratterizzerà il temperamento eccitabile e senz'alcuna forza d'inibizione di Don Carlos attraverso tutto il dramma. Una beffa crudele giocata a un povero calzolaio e a un filosofo di corte è interrotta dall'arrivo di Filippo, che rimprovera il figlio per la sua vita scapestrata e lo ammonisce per il grave pondo che lo attende nel futuro quale suo successore, «l'investitura della più grave responsabilità che Dio possa commettere ad uomo: dominazione sui corpi per salvare le anime».
Don Carlos invoca amore; piange sulla sua infanzia triste di bambino senza madre; inveisce contro i cortigiani accusandoli di essersi messi fra lui e il padre; accusa il padre di non amarlo più, di non averlo mai amato, e intanto lentamente ma continuamente il cerchio si stringe intorno a lui, il cerchio che dovrebbe condurlo al pentimento e alla volontà di una nuova vita. Trovatolo insieme alla Regina, nelle cui parole il giovane cerca conforto e pace, Filippo lo scaccia e gli inibisce l'ingresso nelle stanze della matrigna. Fin qui abiamo seguito il padre alle prese col figlio ribelle; nel terzo episodio è il Re che raduna il Consiglio di Stato per decidere la condotta da tenersi nelle Fiandre. E sarà, naturalmente, quella che vuole il Re, anche contro il parere diverso dei suoi consiglieri; e sarà quella che la storia conosce e che annegò nel sangue la ribellione delle Fiandre.
Un anno è trascorso. La tensione fra padre e figlio si è fatta più acuta. Don Carlos cerca ovunque aiuti finanziari per fuggire dalla Corte, per sottrarsi all'incubo di commettere un parricidio. Ascolta il barone di Montigny, l'ambasciatore fiammingo già votato alla morte, che invoca la libertà della coscienza umana, e invano tenta di trarre dalla sua parte Giovanni d'Austria, il figlio naturale di Carlo V, che gli fu compagno nei giochi infantili e ora è stato riconosciuto fratello del Re e generale del Mare. Nulla ormai da pace all'animo sempre più esacerbato ed esaltato del giovane principe, sconvolto dalla lotta fra la sua sincera fede religiosa e l'odio che lo domina; e nemmeno i dotti domenicani del monastero di Atocha, cui egli inutilmente chiede l'assoluzione, possono dargliela. Ma nemmeno Filippo è in pace; se Don Carlos parla di un parricidio che non commetterà mai, il padre ha già deciso la sorte del figlio, e nulla potrà trattenerlo, nemmeno la prudente parola del Cardinale Espinosa. Don Carlos dovrà rimanere per sempre prigioniero nella sua stanza, guardato a vista giorno e notte da un cortigiano fedele al Re e non dovrà mai ricevere né visite né messaggi. Nella notte dal 23 al 24 luglio 1568, il principe sta morendo. Il suo più fido amico gli porta di nascosto il saio e il cappuccio francescano, coi quali Don Carlos ha desiderato di venir sepolto, dopo di avere tanto invocato la morte ed averla affrettata con tutti i mezzi a sua disposizione. Egli sa che suo padre non verrà a vederlo per l'ultima volta; ma al di là del dolore, il suo spirito è ormai in pace. Per non turbare questa serenità, Filippo infatti si accosta al letto solo quando il principe è spirato. «Gli uomini non vi crederanno, non potranno credervi e non vi perdoneranno nei secoli, mai!» dichiara con voce ammonitrice il Cardinale Espinosa.
Il Duomo di San Miniato è dedicato a San Genesio, patrono degli attori e la piazza che si estende davanti ad esso, fra la bella facciata romanica e il severo Palazzo Vescovile, costituisce di per sé uno straordinario palcoscenico architettonico. È qui per l'appunto che da tre anni a questa parte un gruppo di cittadini sanminiatesi, riunitisi nell'«Istituto del Dramma Popolare» ha voluto dar vita a un teatro che fosse al tempo stesso spettacolo e strumento di elevazione spirituale. Entro questa cornice il regista Mario Landi e l'ideatore della scenografia, Dilvo Lotti, con l'aiuto del realizzatore scenografico G.A. Landi, hanno disposto i vari luoghi deputati, dove si svolgono successivamente gli otto episodi del dramma di Cicognani. Di appositamente costruita vi è solo la stanza di Don Carlos, sullo spiazzo a destra dell'ingresso della Chiesa; mentre la riunione del Consiglio di Stato avviene davanti alla porta del Palazzo Vescovile, cui si accede da una duplice scalinata, ai piedi della quale, in un tratto della Piazza, trasformato in giardino, si svolge l'incontro fra il Principe e la Regina e si snodano i tempi della «gagliarda ballata» delle dame di Corte.
Particolarmente suggestiva è apparsa la scena della confessione con la sfilata dei monaci incappucciati di bianco davanti alla Cattedrale. Nel realizzare le varie scene il regista Landi si è preoccupato di fondere in un tutto bene equilibrato ed armonioso l'ispirazione del testo poetico e quella suggerita dalle caratteristiche architettoniche della piazza, e vi è pienamente riuscito.
Alla prima il giovane Pierfederici ha dato l'impeto, la passione e l'anelito della sua sensibilità interpretativa in cui allo slancio giovanile si allea una meditata potenza artistica. Gianni Santuccio era Filippo II, e di questo enigmatico e difficile personaggio egli ha rilevato più efficacemente il tragico conflitto paterno, attenuandone la rigidezza, con un velo costante di malinconia.
Fresca, trepida, deliziosa Isabella è stata Edda Albertini. Bene intonati tutti gli altri nella varietà della gamma che va dalla saggia imponenza del Cardinale Espinosa, la quale ha trovato pieno risalto nella squisita dizione di Gualtiero Tumiati, ali' ardore giovanile di Estevez, l'amico di Don Carlos, impersonato da Conti. Berri, Feliciani, Moretti, Toniolo e gli altri hanno composto un quadro vivace e pittoresco, entro il quale si sono insinuate, ora gioiose, ora melanconiche, le bellissime canzoni del maestro Frazzi, interpretate da Bianchini.
Il foltissimo pubblico, accorso da Firenze e dalle cittadine dei dintorni, in mezzo al quale si notavano le autorità locali e i critici dei maggiori quotidiani italiani, ha decretato al dramma di Cicognani il più vivo successo, acclamando ripetute volte l'autore e gì interpreti.
LUCIA TRANQUILLI, Giornale di Trieste, Trieste, 28 Agosto 1949
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