La recensione
Savonarola uomo in libera sintesi
Per la sua XXVI «Festa del teatro», l'Istituto del dramma popolare di San Miniato ha messo in scena quest'anno, sulla alta piazza del Duomo della cittadina toscana, il dramma «Savonarola» del francese Michel Suffran. La tradizione samminiatese viene così fedelmente mantenuta, anche se il direttore dell'Istituto, don Giancarlo Ruggini, dopo aver con amorosa competenza retto l'organizzazione per un venticinquennio, ha ritenuto di avere validi motivi — di cui amichevolmente ha reso noto ai critici, in una commossa lettera di commiato — per presentare le dimissioni dall'incarico. Ne ha raccolto l'eredità, pesante quanto ricca di benemerenze artistiche e spirituali, padre Valentino Davanzali.
L'autore del testo realizzato per la prima volta in Italia, Michel Suffran, bordolese e medico, ha al suo attivo, ci dicono, una cinquantina di testi radiofonici e televisivi; questa sua opera, stesa nel 1968, messa in scena due anni dopo dal «Centre theatral du Mimousin» e portata in varie città francesi in un giro di decentramento, è approdata agli inizi dell'anno scorso al francese «Odeon-theatre».
E' un'opera che rifiuta nettamente l'etichetta di un dramma storico, ne ignora anzi il rigore, violentandone molte verità, per operare una liberissima sintesi drammatica. Se l'invenzione o più esattamente la reinvenzione della «storia» sia in ogni caso un diritto discrezionale dell'autore drammatico, è questione a lungo dibattuta e non davvero risolta. Nel caso specifico si sente quanto meno il dovere di riproporla, non senza soggiungere che le implicazioni religiose che discendono dall'esame operato nel dramma sulla figura e sull'opera di fra Gerolamo Savonarola postulano una sorta di religioso bisogno — ci si scusi il bisticcio — di fatti storici nella loro dimensione precisa. Suffran ha ritenuto di dover chiarire che in questo suo «Savonarola» egli ha voluto esaminare soprattutto l'uomo; vien da osservare che difficile, per non dire impossibile, è l'operazione di vivisezionare un personaggio per estrarne un solo lato della sua complessa personalità, quello strettamente legato alla sua carne.
In realtà, Suffran sembra aver avuto l'intenzione — o almeno l'ambizione — di trasformare, nella sua pagina, il processo di fra Gerolamo nella finale parabola di un'anima combattuta, incerta, disperata per quello che le appare «il silenzio di Dio».
Una disperazione che perfino si traduce in negazione, che finanche sembra rifiutare la riconciliazione con Dio in conseguenza del rifiuto di ricevere l'offerta assoluzione. E qui, più che di libertà artistica, si può parlare a tutte lettere di falso storico. D'altro canto, l'autore ha ipotizzato che la sofferenza di fra Gerolamo si ripercuota in Francesco Romolino, il più giovane dei due Legati pontifici al processo, sì da scioglierne il primitivo distacco, da provocarne l'identificazione con l'accusato. Due anime che entrano in sintonia, allorché la spirituale tragedia volge all'epilogo; dovrebbe essere questo, se abbiamo ben capito, il «colpo di Grazia» sottolineato dall'autore.
Al quale bisogna onestamente dare atto di essere andato controcorrente, nei confronti delle drammaturgie di moda e di attacco correnti da noi, nel concepire e nello stendere un testo incentrato sul «contestatore» Savonarola, senza peccare di faziosità, senza farne un indiscriminato atto di accusa alle gerarchle, tentando anzi di esaminare con obbiettività i motivi della contestazione.
La indignazione savonaroìiana, l'impeto purificatore del domenicano, il suo modo di concepire e vivere il Cristianesimo, emergono da molti interventi dell'accusato dinanzi ai suoi giudici. Suffran ha fuso le tre fasi del processo, facendovi assistere i due Legati di Papa Alessandro VI (Turriano e Remolino) che in realtà furono presenti soltanto nella terza e conclusiva fase. Gli uomini del tribunale incarnano i vari poteri — politico, militare, economico, religioso — ed accusano il frate di «aver plagiato Firenze, come una cortigiana», istigando il popolo alla disubbidienza e sviando i fedeli dall'autorità pontificia: sono essi per primi insicuri, contraddittori, impegnati soltanto nella rapida eliminazione di Savonarola. È dai giovani, comunque, che salgono verso fra Gerolamo le voci più tormentate e più sincere. Un'altra figura, non a torto definita bernanosiana, è quella di fra Domenico Maruffi, uno dei due discepoli che con il Savonarola saliranno al patibolo: la sua candida fede che mente riesce a scalfire è il vero controcanto ai dubbi ed alle perplessità del Savonarola di Suffran. Terrorizzato dal suo Dio «che non è di dolcezza, ma di tristezza e di violenza», «di paura e di vendetta»; quasi un negativo assoluto dell'amore. Una concezione a dir poco alienante.
Il dramma è ambizioso, ma non riesce che per eccezione ad essere efficace. Procede lentamente oberato di molte parole che l'amido letterario e lo stile imaginifico finiscono spesso per vanificare. Non facilitano certo la effettiva comprensione dei postulati che l'autore intende porgere, le troppe divagazioni che si traducono in contraddizioni. Dopo i primi interventi, l'azione ristagna e l'andamento risulta stancante.
Per la realizzazione, si trattava di avere o no fede nella parola — per esondante che fosse — e bisogna dire che il regista Josè Quaglio ha avuto questa fede, e lo ha dimostrato con la sua direzione scenica. Tutto quello che il testo di Suffran poteva dire, Quaglio è riuscito a farlo dire, senza ricorrere ad inutili invenzioni, senza violentare in alcun modo l'immaginazione dello spettatore. È un merito che gli riconosciamo pienamente, e che certo gli avrà riconosciuto anche l'autore, presente alla prima rappresentazione.
Fra gli interpreti, Aroldo Tieri — sotto il pesante saio del Savonarola — ha retto la sua parte con dignità, splendidamente convincente in alcune invettive, forse eccessivamente mortificato negli empiti della paura. Antonio Pierfederici, che era Romolino, è venuto via via centrando il suo difficile personaggio, per renderlo infine con pienezza. Fra gli altri, non tutti per la verità sullo stesso piano di efficacia, citeremo Claudio Trionfi e Marcello Bertini. La scena di Misha Scandella — una serie di «ribaltabili», per localizzare la grande sala della giustizia ed il carcere del Bargello — è semplice e funzionale.
ARNALDO MARIOTTI Avvenire, Milano, 27 Luglio 1972
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