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Avvenire - La recensione di Odoardo Bertani
 

Dalla Parola il miracolo
Il tenacemente vivo Istituto del Dramma Popolare offre, per la sua 46.ma Festa, la «prima» italiana assoluta di un dramma reso, nei decenni scorsi, famoso in due versioni filmiche, la prima di Gustaf Molander e la seconda — celebre — di C. Th. Dreyer. L'opera s'intitola Ordet (Il Verbo) e la scrisse, giovanissimo, un pastore luterano, Kaj Munk, autore di una sessantina di testi, evidentissimo prolungamento scenico del suo pensiero teologico e del suo fervore missionario, esercitato anzitutto attraverso prediche rimaste famose.
Testi di rapida e non controllatissima stesura, ma utili per capire l'assoluta vocazione religiosa — e l'intransigenza — di Munk che, dopo essere stato con pari irruenza d'atteggiamenti un ammiratore di Mussolini e di Hitler — gli uomini forti —, presa miglior conoscenza e coscienza delle loro azioni, ne divenne acerrimo e attivo oppositore, sicché sopravvenne (nel 1944) il martirio, datogli dai nazisti che gli spararono alla testa. I danesi giustamente lo venerano come un eroe della loro Resistenza. (Sulla sua complessa e significativa figura e sul suo teatro ha scritto pagine ricche di osservazioni competenti Alda Castagnoli Manghi).
Il dramma presente — pressoché adolescenziale —, e ciò spiega anche la radicalità delle posizioni poste in essere, consiste vistosamente in una disputa tra le due sette protestanti dei seguaci del vescovo Grundtvig e dei pietisti (più aperti alla vita quelli, più rigidi e funerei questi). Tale divisione — acrimoniosamente coltivata — è espressa l'una dal vecchio proprietario Mikkel Borgen, che si ispira al vescovo citato, e l'altra dal più chiuso Peter, il sarto del villaggio. Il contrasto tra i due e le loro famiglie si accende a causa dell'amore sorto tra Anders, figlio del vecchio, e Anna, figlia del sarto; costui trova la relazione incompatibile con gli opposti «credo» religiosi dei loro genitori.
Ma questa «fabula» s'incastra in una ben maggiore, aggrovigliata ed emblematica vicenda con altri personaggi: uno di questi è la dolce nuora di Mikkel, Inger, che è incinta; l'altro, fondamentale e, speculativamente, protagonista, è Johannes, che il dolore per una sventura ha reso pazzo, o meglio ha fatto uscire dal mondo ordinario e ascendere a momenti assoluti di misticismo, sino all'autoidentificazione con la figura di Cristo. Ma Cristo è il Verbo di Dio incarnato, - ed eccoci alla dichiarazione di fede piena, da parte di Munk, nella potenza della Parola, nella sua capacità, se posseduta con purezza di spirito, di compiere miracoli.
In Ordet si avvera quello necessario nella circostanza. Perchè Inger muore di parto, con la sua creatura e Johannes interviene, lasciandosi persuadere da una bambina della famiglia, restituendo la vita alla donna e così sconfiggendo la fede povera e insufficiente degli altri. Si comprenderà come questo dramma — originalmente quattro lunghi atti che furono stesi in circa una settimana — di Kaj Munk non soltanto appaia piuttosto datato, ma sia anche di impossibile esecuzione, se non vi si intervenga con una decisa elaborazione drammaturgica. Così hanno fatto i due registi cinematografici e parimenti si è comportato Mario Scaccia, liberamente agendo sulla traduzione di Annuska Sanavio. Il proposito operativo è stato quello di dare rilievo alla contesa tra le due famiglie, senza però affatto cancellare quella relativa alle convinzioni religiose, tantomeno, all'assunto di fondo. L'evidenza data in scena (grazie anche alla efficace interpretazione di David Gannarello) alla figura di Johannes mantiene la tensione al piano superiore, vincendo — specie nelle scene finali — certi adagiamenti nel quotidiano abitudinario.
Altra efficace lucidità dialettica è portata da Maggiolino Porta, il quale è un Peter concentrato e serio, che bene si contrappone al corposo vigore recitativo di Scaccia, anche regista attento alle esigenze comunicative della scena, ma per nulla proclive a renderla facile e, quindi, insignificante. Il suo è stato un lavoro di accorti dosaggi e di sintesi bene indicative, condotto con umiltà e tale da suggerire spunti di riflessioni a chi, del pubblico, non sia viziato dalla soap-opera ed abbia un po' di sensibilità per un teatro dello spirito, come è negli intenti dell'Istituto. La bella, concentrata compagnia ha anzi elementi di qualità, come Consuelo Ferrara (Inger), Gianluca Farnese, Sonia Antinori, Carlo Greco e via dicendo, sicché la rappresentazione ha spesso efficacia propositiva delle questioni in campo. La scena di Mario Padovan («loci deputati» scandiscono l'azione), i costumi rievocativi di Rosalba Stanatopoulos e le appassionate musiche di Federico Amendola (assai suggestivo il coro dei di parte luterana) sono il collante di uno spettacolo dai molti rischi, ma anche di bel sapore e di impetuoso fraseggio.
ODOARDO BERTANI, Avvenire 18 luglio 1992




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