Un dramma interiore dove la parola sovrasta l'azione
Quest'anno si celebra il centenario della nascita di Reinhold Schneider, autore tedesco non molto conosciuto in Italia, ma che la Germania considera uno dei grandi della propria letteratura. Schneider nacque a Baden-Baden il 13 maggio 1903 da padre protestante e madre cattolica. Cattolica fu pure la sua educazione. Dopo gli studi, visse a Dresda fino al 1928. Da quel momento iniziò una serie di viaggi in alcuni paesi europei, che non soltanto gli dettero un'impronta decisiva e una visione ben più larga delle sue prospettive ideali, ma lo aiutarono anche a trovare se stesso, ed una sorta di «salvezza spirituale».
La sua profonda percezione dei valori della tradizione cristiana, dopo un periodo agnostico, lo portò ad un'opposizione netta al nazismo. Per questo venne perseguitato e la pubblicazione delle sue opere diventò difficoltosa e in gran parte clandestina. Nel 1945 fu condannato per alto tradimento. Lo salvò la fine della guerra. Morì a Friburgo il 6 aprile 1958.
Las Casas vor Karl V è considerata la più importante opera narrativa di Schneider, dove trova una formulazione particolarmente solenne il dramma da lui lungamente indagato: l'antitesi tra potere e grazia, tra le irrinunciabili esigenze dell'anima e quelle prepotenti di una determinata interpretazione della storia.
Il testo, che già nel 1952 fu ridotto per le scene da Karl Zinnermann, è stato ora riproposto sulla storica Piazza del Duomo di San Miniato, in occasione della cinquantasettesima Festa del Teatro, nell'adattamento di Roberto Mussapi e la regia di Giovanni Maria Tenti.
Al centro del romanzo Las Casas vor Karl V c'è la vicenda di Bartolomeo de Las Casas, che viaggiò con Cristoforo Colombo nella sua seconda traversata.
«Non importa compenetrare della Croce tutto il mondo. Conta che in questo travaglio ne siamo diventati testimoni. Noi non conosciamo le sue vie, in orizzonte e verso l'alto, ci è data soltanto la sua legge: a questa dobbiamo ubbidire, abbandonarci. E quello che agli uomini appare follia, è forse, come le verità dei sogni, conoscenza estrema». Las Casas resta solo. Prende le carte sul tavolo e si incammina lentamente verso il fondo dove sorge una croce di legno.
Le braccia della croce sono illuminate da un leggero raggio di luce, mentre il tronco resta nell'ombra. La croce sembra l'albero maestro di una nave. Las Casas alza gli occhi verso la croce. Comacho alza le vele, Las Casas volge lo sguardo verso il mare. Luce al tramonto. Comacho gli porge un pastorale di legno. Si sente soltanto il rumore del mare e del vento che gonfia le vele.
Il domenicano spagnolo Bartolomeo de Las Casas ha appena ricevuto dall'imperatore Carlo V la nomina a Vescovo e l'incarico di portare agli Indios le nuove leggi. Las Casas ha vinto la disputa con Juan Gines de Sepulveda, autore di un libro nel quale sostiene che la guerra contro gli indigeni pagani è legittima e santa e che il loro assoggettamento deve precedere la conversione. Las Casas predica pace e fratellanza: gli Indios convertiti al cattolicesimo diventano pari ai conquistatori; la conversione costituisce la vera missione e deve procedere con i mezzi della fede; e poi gli Indios, in quanto nati liberi, devono sì essere convertiti, ma non costretti alla conversione: «Non è durante una guerra che possiamo conoscere i popoli, ma soltanto in pace, perché per la pace sono stati creati. Chi irrompe e attacca un
popolo con le armi non lo vede. Con la prepotenza e la cupidigia si frantuma nell'uomo lo specchio in cui si riflette il volto di Dio. La coscienza però segue la legge della verità, e testimonia contro le loro azioni».
Accettare la tesi di Las Casas significa capovolgere l'ordine e la vita nel Nuovo Mondo. Ma in suo favore si offre di testimoniare Bernardino de Lares, un vecchio conquistador che rinuncia alle ricchezze ingiustamente accaparrate e che si fa prete. Carlo V si lascia convincere: «Ho meditato a lungo su tutto quanto mi hai detto. Tu — dice rivolto a Las Casas — non appartieni al novero di coloro che vogliono dominare con la tonaca o assumere la missione di profeta per comandare anche chi governa. Per quello che io so della tua vita, tu non hai pensato a te stesso, la tua è l'esistenza di un uomo sincero. E in un uomo non sono gli errori che dobbiamo temere ma la menzogna. Non credo che una voce come la tua sorga per caso, se si è levata proprio ora deve esserci una ragione. Certo anche il dottor Sepulveda è un mio suddito fedele e non vorrei privarmene, ma conviene lasciarlo al posto che occupa, purché sia sempre il secondo, mai il primo. Non è libero come te che sei servo di Cristo».
Il lavoro di Mussapi risulta interessante, letterariamente il testo è molto bello, ma un po' come succede per la lirica con le opere in forma di concerto, così per questa messa in scena la parola sovrasta l'azione. I dialoghi, rischiano di essere una serie di non brevi monologhi.
Bravi comunque gli attori: da Franco Graziosi a Renato De Carmine, da Beppe Chierici a Walter Toschi a Franco Sangermano. Un gruppo che con la parola e la dizione si trova davvero a proprio agio.
Della messa in scena, al di là della carenza di «movimento», resta da sottolineare il notevole impianto scenico con la suggestiva proiezione del fondale (di Daniele Spisa e Carlo Fiorini) a ricostruire quel mare solcato da Bartolomeo de Las Casas sulla «nave/mondo» voluta dal regista (che «rischia di incagliarsi e naufragare con tutto il suo carico d'ingiustizia e iniquità») e quel finale con «la croce che sembra l'albero maestro di una nave» e il ritorno nel Nuovo Mondo affinchè, «l'uomo possa rimanere lo scopo dell'uomo».
Andrea Fagioli - L'Osservatore Romano 21-22 luglio 2003
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