I cattivi consigli della paura
La torre di Federico di Svevia «a San Miniato al tedesco» (infatti un tedesco la costruì sette secoli or sono, i tedeschi la mutilarono venticinque anni fa e gli italiani l'hanno ricostruita) questa torre tutti gli anni dal 1947 in qua (meno nel 1961 quando si recitò a Pisa e fu un errore) ha visto uno spettacolo allestito per iniziativa dell'Istituto del Dramma Popolare. Il quale fu fondato subito dopo la guerra dal compianto avv. Gazzini, su questo «dilettoso» colle che sorge a metà strada fra Pisa e Firenze. Lo scopo: realizzare, per dirla con Achille Fiocco, «un teatro spirituale cristiano, non apologetico, non oleografico, non attaccato alle viete formule, ma vivo, libero, arrischiato, pronto a sbagliare, a scandalizzare, per accertare la verità, un teatro che vede i problemi d'oggi nella luce di sempre».
Fedele a questo programma è l'amico — e successore dello scomparso avv. Gazzini — don Giancarlo Ruggini, prete che sa di lettere e soprattutto di teatro. La sua è un'autentica... passionaccia.
Ogni anno aumentano le difficoltà per trovare un testo idoneo. Quali scrittori offrono una materia degna di essere presentata con il nostro «bollo»? Chi scrive testi avendo presente il precetto cristiano?
L'elenco dei lavori presentati in ventiquattro anni è costellato di nomi stranieri; sette soli gli italiani: Bruno Cicognani (1949), Betti (1953), Fabbri (1956), Turoldo (1960), Fabbri e Novelli (1965), Silone (1969), diciassette gli stranieri: sei francesi (Ghéon, Copeau, Bemanos, Cesbron, Claudel, Neveux); tre inglesi (Greene, Fry, Eliot, questi con ben quattro lavori); un americano (MacLeish), un israeliano (Shamir), un lituano (Milosz) e uno spagnolo (Antonio B. Vallejo) con due lavori: uno nel 1967 e quello di quest'anno, Il Sonno della ragione, tradotto da Maria Luisa Aguirre D'Amico.
È di quest'opera che dobbiamo parlare: ha visto sette «esauriti» oltre alla presenza dei maggiori critici d'Italia all'anteprima. Il sonno della ragione potrebbe anche essere tradotto come «La ragione imprigionata dalla paura». Ne è... esponente il grande pittore spagnolo don Francisco Goya che visse per quasi quarant'anni interamente sordo. Egli morì in Francia nel 1828, in esilio; sulla scena siamo nell'anno 1823, gli anni della Restaurazione, del dominio del monarca assoluto Ferdinando VII, tornato sul trono dopo l'uragano napoleonico.
Goya è sordo, ma la sua sordità per Vallejo è emblematica; è sorda tutta la Spagna che con il ritorno di Ferdinando VII ha fatto un balzo indietro almeno di un quarto di secolo.
Il grande pittore vive il suo dramma di «liberale» che non intende arrendersi, vive allucinato e dipinge il suo mondo intimo, fatto di mostri. E li trasferisce sulla tela; non sono uomini, sono figure che la paura deforma; a deformarli è la realtà ossessiva dell'assolutismo. Goya non è pazzo, è un uomo che denuncia «il sonno della ragione». Gli altri parlano e lui non li sente; procedono a gesti o per scrittura e, in realtà, i sordi sono loro mentre Goya avverte
rumori, miagolii, risate, voci ostili che gli altri non percepiscono.
Tra lui e il mondo che gli sta attorno c'è un enorme muro e contro questo muro egli si avventa invano perché alla fine dovrà arrendersi e accettare la via dell'esilio.
La paura è una cattiva consigliera; per superarla sarebbe necessaria una rivoluzione, ma la Spagna si adatta (la Spagna di allora, e quella di oggi? Vallejo evidentemente non perde di vista il suo tempo, lui che fu anche condannato a morte per sentimenti «liberali» e che fu in seguito graziato). Nasce quella che Goya, per bocca di Vallejo, definisce «pittura putrefatta».
E sul palcoscenico ne abbiamo esempi. La scena di Gianfranco Padovani, a pannelli, consente di proiettare alcune fra le più significative opere del grande pittore e così abbiamo la documentazione visiva di quanto viene detto sulla ribalta. Il regista Giuranna ha avuto un buon materiale per gli effetti scenici: dalle voci, alle risate, a una specie di tam-tam ossessivo che perseguita l'artista, a questa specie di pinacoteca che indirizza lo spettatore verso la comprensione dello stato d'animo del protagonista.
Accanto a lui — si può dire che si tratta di un soliloquio, in quanto gli altri che gli stanno attorno condannati a gesti e a brevi scene risultano personaggi minori — vi è la sua donna Leocadia (giuridicamente una concubina) che gli ha dato una figlia, Mariquita. È un modesto essere, che passa di spavento in spavento, accanto a un uomo che la considera poco più di uno strofinaccio. Anche lei è una vittima della paura, un essere incapace di ribellarsi, rassegnata e, quasi lieta, che altri disponga di lei come di una femmina di comodo.
Goya è stato Aroldo Tieri; l'attor giovane che conoscemmo molti anni addietro, oggi è un primo attore con le carte in regola e domina la scena dall'inizio alla fine con l'autorità che la parte richiede.
Una interpretazione maiuscola, senza sbavature; un bravo di cuore. Leocadia è stata interpretata da Giuliana Lojodice; condannata ai gesti dei sordomuti è esplosa alla fine in una «tirata» che ha dato la misura delle sue doti e della sua bravura. Erano accanto a loro Pietro Biondi nella parte del re, Giampiero Becherelli e Mino Bellei nelle parti del dottor Arrieta e del reverendo don Duaso, Giancarlo Bonuglia, Carla Greco, Liliana Sorrentino.
L'autore presente alla prima di martedì 25 è stato applauditissimo insieme con gli interpreti e col regista a cui va il merito di una bella realizzazione.
Sette serate di successo; due sono state acquistate dal Rotary e dal Lyons, le altre hanno visto in prevalenza spettatori fiorentini che considerano ormai lo spettacolo di San Miniato come loro, la qual cosa significa che ventiquattro anni non sono passati invano.
Carlo Trabucco, Il nostro tempo, 6 Settembre 1970
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