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La Repubblica - La recensione di Di Giammarco
 

Saulo, conversione in quattro quadri
L'avvento di un direttore laico, Franco Palmieri, eletto alla guida d'un cantiere di spiritualità come l'Istituto del Dramma Popolare ha già introdotto nella 55ma Festa del Teatro alcune innovazioni: la scena non è più ritualmente al di sopra degli spettatori e una moderna gradinata s'affaccia ora sullo spazio a terra destinato allo spettacolo; più che su un dramma liturgico o una sacra rappresentazione d'impianto convenzionate, la scelta è caduta su un «mistero» in quattro quadri permeato di forte e problematica poesia, Saulo di Tarso scritto nel 1914 dal lituano (naturalizzato francese) Oscar Vladislao de Lubicz Milosz, autore d'un ragguardevole Miguel Manara proposto sempre qui a San Miniato da Orazio Costa nel '62. La chiave non agiografica e non canonica del testo realizzato adesso dal regista e co-protagonista Maurizio Schmidt è consistita soprattutto nella messa in mostra delle resistenze e degli enigmatici comportamenti di Saulo avviato a un'indecifrabiìe conversione sulla via di Damasco,
che gli varrà l'identità nuova di San Paolo.
La fascinazione che riserva questo studio dell'uomo sospeso tra potere e «dolore dell'amore e dell'assenza» parte dalle premesse di un padre adottivo che è equidistante in materia di dispute religiose, scaturisce dall'intolleranza per un Cristo definito «bastardo di Maria la galilea», «impostore», «falso messia» o «re mascherato», e deve farsi strada tra l'uccisione di un bambino di tre mesi attribuita ai cristiani, la lapidazione di Stefano, e l'autodenuncia confessionale del fratello di Saul e della sua compagna schiava egiziana.
La strada per una sofferta presa di coscienza è ritmata dalla calma interiote di uno splendido e sussurrante Virginio Gazzolo nei panni di autore/raccontatore. Il Saulo impersonato da Schmidt ha tonalità forti e controverse, teme la sdolcinatezza, è persecutore. Questa frattura nella parabola d'un uomo sembra una traversata nel deserto di recenti e folgoranti scrittori francesi, e nel paesaggio arso di Emanuela Pìschedda c'è almeno da nominare i ruoli riflessivi di Mauro Malinverno ed Elisabetta Vergani.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica, 27 luglio 2001




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