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Il Messaggero - La recensione di Renzo Tian
 

Vecchio e saggio ma con l'anima di un demonio
L'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ha la stessa data di nascita del Piccolo Teatro di Milano e del Festival di Avignone, il 1947. Da allora, per 46 anni, ogni estate ha avuto vita quella «Festa del teatro» prima ancora che della parola «festa», a teatro e fuori, si facesse l'abuso che sappiamo. Animato dal fervore di don Lorenzo Ruggini (di cui oggi ricorre il ventennale della scomparsa), sorretto nei primi anni dalla vigile simpatia di Silvio D'Amico, l'Istituto allineò sul sagrato del Duomo alcuni dei più importanti spettacoli di quegli anni, dall'Assassinio nella cattedrale di Eliot con la regia di Strehler ai Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos, con la regia di Costa a Il potere e la gloria di Greene con la regia di Squarzina. Poi continuò sulla strada di un teatro che fosse spirituale senza esser devozionale, come diceva Ruggini: cioè di un teatro capace di toccare le corde della trascendenza e nello stesso tempo atto a provocare la riflessione diretta e collettiva che la partecipazione alla «festa» teatrale richiede. Spiritualità, senso del divino, comunicazione immediata attraverso la scena: erano i termini di un'equazione che si presentava quasi impossibile sulla carta. Ma in quegli anni la scommessa fu molto spesso vincente, grazie anche ad autori che si chiamavano Claudel, Copeau, David Maria Turoldo, Fabbri, Silone, Luzi. E San Miniato divenne poco a poco un'isola di coerenza dove s'incarnava una religiosità problematica, ricca di dubbi piuttosto che di certezze, attenta ai fermenti e alle inquietudini della contemporaneità.
A mano a mano che si procedeva nell'arco di tempo che si avvicina ormai al mezzo secolo, trovare un testo che si ponesse su quella linea diveniva ovviamente impresa più ardua, riproponendo il dilemma tra coerenza ai temi e ricerca del consenso di pubblico. La scelta di quest'anno, ad esempio, è sotto molti aspetti inconsueta.
Uscendo per la prima volta da un repertorio decisamente eurocentrico, San Miniato ha messo in scena Ti-Jean e i suoi fratelli, un testo teatrale del 1958 di Derek Walcott, lo scrittore centro-americano di origine africana cui è stato attribuito inaspettatamente il Premio Nobel per la letteratura dello scorso anno. Di Walcott sappiamo che ha 62 anni, è poeta, narratore e teatrante attivo: a Trinidad, nelle Antille, ha fondato una trentina d'anni fa un «atelier» teatrale. Il suo teatro comincia ad essere conosciuto anche in Europa: un'Odissea di derivazione, omerica e ambientata nei Caraibi è stata di recente rappresentata a Londra dalla Royal Shakespeare Company.
Ti-Jean e i suoi fratelli è a metà strada tra la fiaba scenica e la moralità medievale dove è questione della lotta fra l'uomo e il Maligno, ma anche di miseria e opulenza, di sapere e innocenza. Narra di una povera madre che ha tre figli e li vede partire uno alla volta dalla povera capanna dove vivono alla ricerca della loro strada nel mondo. I tre incarnano ognuno un tipo umano diverso. Il primo, Gros-Jean, è tutto forza fisica. Il secondo, Mi-Jean, è un intellettuale incline al filosofeggiare. Il terzo, Ti-Jean, apparentemente indifeso, è il più dotato di istintivo, buon senso. Tutti, nella foresta, incontrano a turno un vecchio saggio che dispensa consigli per la loro riuscita. Ma il vecchio è in realtà il diavolo, che della «saggezza mondana» fa una delle sue armi: proprio quel diavolo che nel prologo aveva lanciato una sfida ai tre fratelli, dichiarando che avrebbe divorato chi di loro non avesse saputo tenergli testa facendosi cogliere dall'ira e avrebbe invece ricoperto d'oro colui che fosse riuscito nell'impresa di farlo arrabbiare. Il fratello nerboruto cade facilmente nel tranello: si fa arruolare dal piantatore bianco (altra incarnazione del Maligno) che lo provoca storpiando il suo nome, s'infuria per la mortificazione e viene ucciso. Il filosofo parte con miglior determinazione: ha scelto la tattica del silenzio, convinto che sia la migliore per vincere l'avversario. Ma quando l'intellettuale si vede affidato il compito di addomesticare un irriducibile caprone selvatico, perde la calma ed è divorato a sua volta. Sarà il più piccolo dei fratelli prima a smascherare il diavolo sollevando l'orlo della sua zimarra e scoprendo il piede fesso, e poi bruciando la piantagione con l'aiuto dei braccianti in rivolta. La vita (espressa anche nella simbolica immagine di un bambino mai nato, e soggetto al Maligno) è destinata a vincere contro il potere della morte.
Nutrita dalle tradizioni e dalla cultura caraibica, la fiaba non cela qualche influsso europeo, primo fra tutti quello del didascalismo brechtiano che s'insinua nelle pieghe del racconto simbolico. Assai esile nell'impianto ma provvista di una essenziale moralità capace di accendere anche qualche bagliore di poesia, la fiaba di Walcott corredata da una colorita colonna musicale di André Tanker è stata messa in scena con dovizia di canti e danze da Sylvano Bussotti, che ha curato anche la scena e i costumi. Fa spicco una gustosa interpretazione di Remo Girone, che ci mostra le tre maschere del diavolo caraibico. Ma va ricordata la presenza di Victoria Zinny e di un gruppo di giovani attori tra cui primeggiano Antonello Chiocci, Leandro Amato, Gianni De Feo, Nadia Perciabosco, Alessandra Sarno, Antonio Fabbri, Antonella Voce.
RENZO TIAN, Il Messaggero 17 luglio 1993




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