Quell'ambiguo avvocato di Dio
Un giudizio intentato a Dio per i massacri e le atrocità che egli consente (o non impedisce) che si commettano nel mondo, non può avere come pubblico accusatore altro che un rappresentante dell'« eletto » popolo ebraico che ne è una delle vittime ricorrenti. Elie Wiesel, autore ebraico cinquantacinquenne che è stato un paio di volte in zona di Premio Nobel, originario di un villaggio ungherese, poi emigrato in Occidente ma mai radicato, nemmeno in Israele, sa bene di cosa parla. A sedici anni, ad Auschwitz, vide entrare nella camera a gas la madre e la sorella; pochi mesi dopo il padre gli morì accanto, a Buchenwald. Oggi egli dichiara di considerarsi « un messaggero dei morti tra i vivi », e tale ispirazione, o missione, perseguono le sue opere narrative o teatrali. Il Processo a Shamgorod, quest'anno di scena alla Festa del Teatro di San Miniato, è il tentativo di formulare quel grande « perché » in termini1 teatrali e con distanziamento storico. Weisel immagina, sulla tenue falsariga del realmente accaduto, che tre secoli fa alcuni attori girovaghi si presentino nella cittadina russa in tempo di Purim (la festa ebraica caratterizzata da una permissività di tipo carnevalesco) e propongano di recitare qualcosa in una taverna per la comunità ebraica, ignorando che poco tempo prima un sanguinoso « pogrom » aveva annientato la comunità intera ad eccezione del taverniere e di sua figlia, sottoposta a feroci sevizie.
Il taverinere sta per scacciarli, poi gli balena l'idea di trasformare quella recita di guitti in un processo: il processo a Dio, appunto, accusato di non aver impedito quella ed altre innumerevoli stragi ai danni del « suo » popolo. I tre attori saranno la Corte, il taverniere il pubblico accusatore. Manca, per la regolarità, un avvocato, che sembra impossibile trovare. Ma d'improvviso si presenta un misterioso personaggio ohe si offre di farlo d'ufficio. E questo difensore volontario sarà proprio colui che farà prendere una piega imprevista ad un processo che sembrava deciso in anticipo. Gli argomenti usati sono di questo tipo: come fanno gli uomini a ergersi a giudici di un disegno che non conoscono nella sua interezza? E può l'Essere supremo esser chiamato a rispondere di atti che vanno collocati nella sfera di responsabilità degli uomini? E quel « pogrom » di cui si sta rievocando e deprecando la ferocia è forse più grave della distruzione del tempio di Gerusalemme, delle guerre sante o degli omicidi rituali? Il sofistico argomentare dell'avvocato, non nuovo nella casistica teologica, sarebbe facilmente controvertibile. Ma l'ambiguo personaggio serve per introdurre altri temi. Anche se dice di essere un messaggero di Dio, i suoi connotati sono piuttosto luciferini. E' il rappresentante di una ragion di Stato divina, che fa leva sulle idee di peccato e di condanna e detesta le ragioni del cuore, dell'amore, della pietà. Dietro al suo sommario argomentare c'è l'eterna logica di un potere che trova la sua legittimazione soltanto nella sua forza.
Qui il dramma di Wiesel si arresta, incerto. Gli attori, e per un attimo anche il taverniere, sembrano cadere nella trappola di quella dialettica a buon mercato. Il processo si arresta, slitta nella mascherata del Purim, si attarda in rievocazioni bibliche. Ma è alle porte un altro massacro, per i pochi superstiti: lo annuncia un parroco cristiano votato più al compromesso che al coraggio sacerdotale. E allora? La ruota della violenza girerà ancora senza che il grande « perché » abbia risposta? Oppure era la domanda ad essere male impostata? Oppure quel Satana causidico sta lì a rammentarci che gli uomini, presi dal bruciore delle loro ferite, non sanno nemmeno riconoscere un demonio che si presenta come difensore di Dio, e anzi lo scambiano per un profeta od un santo? Lo spettatore, lasciato libero di fare ipotesi al termine di un dramma che sembrava saldamente basato su una tesi, può anche essere disorientato. Wiesel mostra di saper pilotare con discreta abilità l'intreccio teatral-processuale, con il limite però di una magniloquenza che da alle parole la precedenza sui fatti e le idee. E la regia di Roberto Guicci'ardini ha accettato il dramma di Wiesel, che sulla piazza del Duomo di San Miniato ha trovato naturalmente una sede ideale, per quel che era: una dissertazione tesa ma un po' divagante che si appoggia alle due collaudate leve del rito processuale e del « teatro nel teatro ». Gli attori lo hanno seguito su questa strada di verosomiglianza senza ombre: da Carlo Hintermann, che ha messo tutta la sua onesta e solida burbanza al servizio del taverniere che sembra fare da portavoce all'autore, a Warner Bentivegna che ha fatto un Lucifero tagliente e puntigliosamente razionale, a Carlo Bagno, Edoardo Siravo e Virgilio Zernitz che formavano il trio dei girovaghi, ad Anna Teresa Rossini che creava una figura femminile abbastanza inedita, incisiva e risentita, a Michela Pavia e Giorgio Naddi.
Renzo Tian Il Messaggero, 4 Settembre 1983
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