Greene, la verità dov'è?
Un mondo di positivisti, anzi di anime morte per non aver potuto ricavare dalla spremitura della scienza un senso della vita. Un mondo murato ed sclusivo, dove chi è diverso, cerca diversamente, è marginato. Così, hanno spunto dal giro familiare il Callifer fattosi addirittura prete e per giunta cattolico; così, la porta s'è chiusa alle spalle del figlio James, che a 14 anni tentò il suicidio e dal quel trauma s'è buttato, dentro, dopo averne cancellato la memoria. Essi stessi — la madre, il padre — hanno cercato di seppellire l'episodio che, nei suoi sviluppi, rasentava aspetti inquietanti, perchè irrazionali. In breve, James, che, privato di ogni speranza dal cinico genitore, si era impiccato nel capanno degli attrezzi, era verosimilmente morto, come giurava il giardiniere, ed era stato risuscitato dalle preghiere dello zio prete, che lo amava teneramente. Una faccenda scandalosa per degli spiriti attrezzati al vero palpabile, e presso i quali neanche i fantasmi avevano diritto di cittadinanza.
Ma il vecchio Callifer sta morendo. Il figlio James, chiamato in segreto da una adolescente nipote non ancora imbrigliata e perciò generosamente curiosa e inquirente, torna, ed è l'occasione perchè il capanno, in fondo al giardino, ridesti ombre ed inquietudini antiche, dalle quali non si è liberato davvero sottoponendosi alle cure di uno psicanalista.
Comincia l'inchiesta. Il «giallo» del capanno è ormai un nodo da sciogliere. Le tracce, finalmente, conducono allo zio sacerdote, che, un po' fratello di quello di Il potere e la gloria, si è dato al bere mentre, abbandonato dalla fede, esercita meccanicamente il proprio ministero. Una tremenda rivelazione attende James: lo zio perdette la fede donandola in cambio della salvezza del nipote. Dio accettò il baratto.
Da allora, il prete vive un martirio particolare, senza spargimento di sangue: assiste alla propria morte spirituale. Quanto a James, fu proprio il sospettato miracolo a decretarne l'ostracismo da parte del padre che poi. tuttavia, non ebbe animo di insistere nelle sue tesi, così come vacillano, in quello spicchio di società, le certezze teoretiche di altri.
Infine, James, acclarate le cose, può abbandonare la «paura del Nulla» che lo aveva per tanti anni obnubilato, sicché potrà tornare accanto alla moglie Sara, abbandonato perchè l'amore era per lui una parola vuota. E altre coscienze saranno vivificate dai dubbi o da una fede recuperata.
Questo è Il capanno degli attrezzi, la commedia scritta da Graham Greene nel 1957 e fugacemente rappresentata, l'anno dopo, al Teatro del Convegno di Milano con la regia di Enzo Ferrieri.
Ora, l'Istituto del Dramma Popolare la propone per la prossima stagione e ci mette di fronte al testo di una drammaturgia non cancellabile (anche se spesso accantonata), se è vero che nel travaglio contemporaneo fa la sua parte una sete di altre conoscenze, una insorgenza di turbamenti, domande, bisogni che stanno nell'ordine dello spirituale. Questa commedia di Greeene. cosi sconcertatamente autobiografica, è un capitolo di un discorso che lega alcuni tra i maggiori scrittori di teatro contemporanei: da Claudel a Montherlant, da Fry a Eliot, e, da noi Betti. Fabbri, Brusati; nei quali, l'inchiesta — esplicita o indiretta — è una ricerca della verità profonda, e si sviluppa intrecciando il classico edipico al poliziesco.
L'imperscrutabile — Greene lo sa bene — è proprio delle vie del Signore, ed i comportamenti umani spesso celano la natura delle relazioni con Dio. Inoltre, spiega uno studioso della letteratura inglese, per Greene. «se la religione dev essere accettabile a tutti nell'epoca in cui viviamo e che non ha strutture religiose paragonabili a quelle del passato, deve vestirsi del fascino dell'inatteso». L'inaspettato della trama rende allora popolare la metafisica.
Commedia seduttrice lo è questo Capanno degli attrezzi dai così densi contenuti affioranti da allusioni, svelati da incrinature, rifratti in echi e in improvvisi affondi psicologici. Essa ha tutto il fascino di una scrittura alta e leggera, di una conflittualità intima e sommessa di un tono quotidiano, in totale assenza di chiacchiera; la concentrazione è in ogni battuta, che si nutre di rimandi e di pieghe segrete come di sottili allegorie e di simboli efficaci. E' un'inchiesta, si diceva, non un processo. Nessuno si arroga diritti e alla fine rivendicherà piuttosto la libertà della perplessità, metterà in questione se stesso.
Commedia tanto convinta, quanto dialettica; commedia liberatoria; commedia coraggiosa nel momento in cui guarda in faccia il miracolo, sapendo però che la fede è oltre. Popolata di figure che sono indirettamente personaggi di grossa emblematicità: ma Mary, la madre; Sara, la moglie, la limpida e pura Anna, infine.
L'edizione presente ha segnato il ritorno, purtroppo momentaneo, al teatro vivo da parte di Sandro Bolchi.
Collocato nel piccolo parco sotto la Rocca (nel felice adattamento scenografico di Aldo Buti) il testo di Greene ha ricevuto dal regista un'attenzione, direi, devota; ossia una cura per la parola, per la chiarezza della metafora e dei significati, per la forza del messaggio tale da indurre magari a qualche rinuncia gli effetti movimentistici; la rappresentazione ha il rigore e le semplicità tonali e gestuali confacenti ad una «miracle play», ed è sostenuta da un ritmo preciso e pregnante, da una pronuncia grave e concisa. Carlo Simoni conferisce a James tutta l'ombra e la sofferenza e la pensosità necessarie; è un problema vissuto con la finezza e la sobrietà di un attore esperto ma non inaridito.
La sua bella malinconia si trasferisce nella desolazione che a Padre William conferisce, con grande forza espressiva, Mario Maranzana: un capolavoro di misurati squallori, di faticose confessioni, di angosciose domande sull'abbandono da parte di Dio. Brava è naturalmente Regina Bianchi (la Madre), e una nota particolare di merito va a Margherita Guzzinati per la sua Sara dalla contratta sensibilità e a Joyce Leone per la pungente freschezza della sua Anna; senza dimenticare Giorgio Bonora, Sergio Fiorentini, Micaela Giustiniani, l'intensa Rina Franchetti, Enrico Baroni e Rodolfo Santini. Sobrie e ben coordinate le musiche di Luciano Bettarini. Il successo è stato notevolissimo.
ODOARDO BERTANI, Avvenire 18 luglio 1987
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