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La recensione di Carlo Maria Pensa
 

Un fascino agghiacciante dal Goya di Vallejo
La stagione drammatico-turistica 1970 si è chiusa a San Miniato, dove un intrepido prete, don Giancarlo Ruggini, tiene vive, sotto l'insegna dell'Istituto del Dramma Popolare, le annuali «Feste del teatro», puntualissime, dal 1947 a oggi, e soprattutto, ispirate come sono alla nobiltà d'un repertorio genericamente spiritualistico, estranee ai colori della propaganda degli uffici viaggi e vacanze. Naturalmente, poiché siamo in Italia, ci deve pur essere qualcosa che guasta una iniziativa tanto seria: ed è che ben pochi degli spettacoli realizzati grazie alla tenacia e all'amore di don Ruggini, evidentemente abilissimo a cavar denaro anche dalle pietre, sono riusciti, fino ad ora, ad aver respiro oltre le mura di San Miniato. Quasi tutti sono nati e morti qui, con gran successo artistico e, ovviamente, con grande insuccesso finanziario.
È la sorte, per esempio, dell'Avventura d'un povero cristiano di Ignazio Silone, messa in scena l'anno scorso da Valerio Zurh'ni e bruciata in una settimana di repliche; e, se qualche avveduto impresario non provvederà per tempo, rischia d'essere la sorte dello spettacolo di quest'anno, Il sonno della ragione, novità dello spagnolo Antonio Buero Vallejo, allestito da un regista di cui abbiamo molta stima, Paolo Giuranna, e interpretato da un complesso d'attori in cui fanno spicco eccellente Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice.
In Italia, questo Buero Vallejo si fece conoscere tre anni or sono proprio qui a San Miniato, con un copione, Il concerto di Sant'Ovidio, diretto dallo stesso Giuranna, che il Teatro Stabile di Genova ebbe poi il buon senso di riprendere nella stagione regolare. Con Il concerto scendevamo in un mondo di poveri ciechi; con Il sonno della ragione Buero Vallejo, ricorrendo alla medesima chiave scopertamente allegorica della menomazione fisica intesa come limitazione d'una libertà spirituale e politica, ci trascina negli abissi della sordità di cui per molti anni soffri il celebre pittore spagnolo Francisco Goya.
Il riferimento alla condizione della Spagna falangista è anche troppo evidente; lo scrittore è un tenace avversario del regime, almeno a giudicare dal suo curriculum nel quale trova posto una condanna a morte mai eseguita oltre che il conferimento del Premio «Lope de Vega», massimo riconoscimento teatrale del governo franchista, e una cospicua serie di drammi e commedie tutti regolarmente e indisturbatamente recitati nei maggiori teatri della nazione. (Chissà quanti autori italiani sarebbero disposti a sopravvivere a una condanna capitale pur di farsi rappresentare).
Di Goya non è, qui, tracciato un semplice ritratto biografico più o meno fedele alla cronaca; Buero Vallejo lo coglie settantaseienne, sordo da trentun anni (cioè, guarda caso, quanti ne conta, oggi, il potere di Francisco Franco), ma ancor vigoroso nei sensi che lo legano alla sua governante e amante, la malmaritata Leocadia; ancora travolgente nella genialità pittorica donde nascono mostri e fantasmi, e ancora fermo nella sua fede liberale contro l'oppressivo e repressivo re Ferdinando VII, rimesso sul trono dalla restaurazione del 1823.
Il dramma procede a lampi, attraverso il continuo incastro dei rapporti che pongono Goya di fronte alle allucinazioni della sua arte nella casa solitària di cui egli va affrescando le pareti con le figurazioni spettrali del suo isolamento e gli onirici simboli della sua evasione; di fronte al monarca che da lui attende la supplica del perdono e che riuscirà a sopraffarlo soltanto con l'orrore della violenza; di fronte alle poche persone che lo frequentano: Leocadia, un medico amico e un antico compaesano.
È nel gioco dialettico del vecchio pittore con i suoi interlocutori che Buero Vallejo propone, con intuizioni felici, l'espediente d'una sordità che coinvolge tutti noi spettatori. In altri termini, quando Goya è in scena, noi non udiamo, come non le ode lui, le persone che gli «parlano», e udiamo solamente, come li ode lui, gli urli sinistri e indistinti della sua solitudine. Niente più che un espediente, ripetiamo: tutto sommato anche piuttosto fragile dal momento che gesti e alfabeto muto sono per noi altrettanto comprensibili di quanto lo sono per Goya. Ma l'effetto esterno e i significati ideologici acquistano un fascino agghiacciante, di cui va reso particolarissimo merito ad Aroldo Tieri e a Giuliana Lojodice, bravi in una misura che raramente è dato constatare in attori oltretutto avvezzi, negli ultimi anni, a un genere in cui si sottendono prevalentemente i fili dell'ironia e del disimpegno.
Certo, Antonio Buero Vallejo non rinuncia a vendere fumo, non sempre respinge le tentazioni del melodramma, non si ritira dinanzi alla possibilità di adottare soluzioni compromissorie; ma l'impasto della sua natura di commediografo è fuori discussione, autentica materia d'ingegno, di fantasia e di prepotenza polemica. Bisogna poi aggiungere che l'incontro con Paolo Giuranna ha dato un frutto, cioè uno spettacolo di singolare suggestione e di rigoroso equilibrio; uno spettacolo che la svariante proiezione di lastrine riproducenti opere di Goya sulle funzionali, armoniche strutture sceniche ideate da Gianfranco Padovani, accende di sempre nuove significazioni, opportunamente sottolineate da intensi effetti sonori.
Tra gli interpreti, oltre alla Lojodice, così icasticamente perentoria, e a Tieri, che «tiene» esemplarmente il carico di una età ancora molto lontana dalla sua, vogliamo ricordare Giampiero Becherelli, Mino Bellei, Carla Greco, Giancarlo Bonuglia e Pietro Biondi, bel gruppo di professionisti di cui troppo frequentemente gli spettacoli estivi sono carenti. Le recite sanminiatesi quasi certamente non avranno seguito, come s'è detto; in compenso hanno avuto un interessante riscontro nella mostra antologica del pittore Dilvo Lotti che sotto i loggiati di San Domenico ha raccolto numerose sue opere particolarmente ispirate, in omaggio a Francisco Goya e ad Antonio Buero Vallejo, a un suo soggiorno spagnolo.
Carlo Maria Pensa, Gente, Milano, 7 Settembre 1970




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