La recensione
Un pellegrino dello spirito melanconico e decadente
Il paese di San Miniato sembra interamente ideato da uno scenografo: piazze e piazzette chiuse, di una acusticità perfetta, giardini discreti che sfumano nell'ombra, torri e torrioni in miniatura, suggestive facciate di chiese; con pochi ritocchi che non si riesce a distinguere dalle architetture secolari, il maestro scenografo chiude lo spazio per la rappresentazione. Impalcature mobili, tubi e tavole creano, dove occorre, le gradinate per il pubblico, che vi accede per vicoli, scale, scalette, che si insinuano tra i palazzi, sgusciando sotto antiche volte, come a garantire il perfetto raccoglimento del luogo prescelto.
Ieri, per la rappresentazione di Miguel Manara di Oscar V. de Lubicz Milosz, lo scenografo maestro Chiari ha avuto appena bisogno di ritoccare il sagrato del SS. Crocifisso, scelto da Grazio Costa per ambientarvi l'opera dello scrittore lituano. Lo spazio scenico risulta diviso in due piani sovrapposti: sul piano inferiore avevano luogo le azioni drammatiche; il piano superiore, all'altezza del portale della chiesa, era chiuso sul davanti da una ringhiera in ferro, dalla quale si affacciavano personaggi corali come nella scena ideata da Goya per la cupola di Sant'Antonio de la Florida. L'assieme del dispositivo, raccordato ai lati da due braccia di scalinata, conferiva unità e movimento ad un'opera dalla struttura frammentaria e dalla drammaticità oratoria ed intellettualistica.
L'autore, come si è detto, è nato in Lituania; ma a dodici anni, nel 1889, si trasferì a Parigi, dove restò tutta la vita e dove morì nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Egli appartiene perciò, letterariamente, alla cultura francese. Ma il fondo mistico e turgido della sua ispirazione rammenta le origini orientali; per di più, aristocratico in un'epoca di mutamenti profondi, colto e raffinato, non può non sentire in sé acutamente il conflitto fra vecchio e nuovo. Ciò che lo isola e gli fa ricercare la verità fuori della storia, in regioni di una spiritualità rarefatta, dove l'uomo faticosamente si innalza con la rinuncia alle tentazioni dello spirito della terra.
Visto sotto questo profilo, il Milosz si inquadra abbastanza bene nel decadentismo europeo, di cui non rappresenta l'irrazionalismo attivo e volontaristico, ma quello mistico e contemplativo. Tuttavia ha in comune col primo il mondo delle forme, la sensualità acuita e turbata dal desiderio del possesso, sublimata nel desiderio dell'assoluto. Una sorta di D'Annunzio rovesciato dall'inquietudine religiosa, un HofEmannsthal minore. L'età del decadentismo è ricca di simili personaggi. La stessa scelta del protagonista del suo dramma religioso testimonia la consistenza di cedeste parentele: Don Miguel Manara Vicentelo de Leca è infatti il risvolto edificante di Don Giovanni Tenorio. Mentre costui, ostinato nella ricerca del piacere, finisce all'inferno, Manara conclude la carriera del libertino con la conversione e la penitenza. A Siviglia, nella Chiesa della Caridad, si legge ancora sulla sua tomba l'epitaffio da lui stesso dettato: «Qui giacciono i resti del peggiore uomo che fu al mondo. Pregate per lui». E volle che il sepolcro fosse a terra, «perché tutti i fedeli, entrando, calpestassero il suo corpo immondo».
L'autore presenta il suo personaggio nel bel mezzo di un allegro banchetto, già turbato dalle aridità del libertinaggio, tetro, irritato, annoiato, essendo la noia, la tetraggine e l'irritazione il risultato di una vita chiusa nel proprio piacere. Ma nell'irritazione di Manara c'è già il desiderio di qualcosa d'altro: la sua sensualità è un bisogno d'amore ancora cieco e ottuso. Lo comprende il suo anziano e autorevole amico don Fernando, che lo rimprovera duramente ma affettuosamente. E Manara, che dopo una reazione violenta sente la consistenza del rimprovero, da ascolto al consiglio di don Fernando di avvicinare una donna non ancora corrotta dal vizio, Geronyma Cariilo de Mendoza.
Per Manara l'incontro è rivelatore: 1" illuminata innocenza di Geronyma da un senso alla sua angoscia, gli schiude le porte dell'infinito, come il raggio dell'amore divino che filtra attraverso l'amore di una donna. Ma la felicità di Manara è di breve durata: compiuto il miracolo della rivelazione, la moderna Beatrice muore e Manara, pazzo di dolore, è di nuovo assalito dall'angoscia del nulla. Penserà l'abate del convento della Caridad a indirizzare il suo amore sanguinante verso mete sempre più alte, in cui, libero da ogni desiderio terreno, l'amore può finalmente debordare e confondersi con la sua divina sorgente.
Diventato frate, pieno del suo fuoco di carità, Manara riesce a concentrare in sé tanta energia spirituale da guarire un paralitico. La sua giornata terrena sta per concludersi: ed ecco di nuovo gli spiriti della terra assediarlo con le loro tentazioni, mostrargli la vanità delle sue rinunce. Ma Manara non cede. La sua rinuncia non è negazione della creazione, ma affermazione del solo valore, l'amore di Dio, che da un senso alla creazione.
Così si conclude la più notevole testimonianza letteraria dello scrittore lituano; dove la sua arte, per essere troppo fedele ancella di una biologia mistica, di rado riesce a salire oltre il livello di un'alta e nobile oratoria. Tutto questo torrente d'amore, che a volte rimuove fondi limacciosi di una sensualità non filtrata, stimola l'intelletto lasciando quasi del tutto inerti le reazioni emotive, il mondo mistico e irrazionale di una così fatta visione del mondo. Sicché persine la scena del miracolo, una tra le più efficaci del lavoro, appare determinata più dal fermentare di una suggestione collettiva che dalla divina semplicità di un atto spirituale. Tale era del resto la sostanza di tanta religiosità europea nella prima fase del ventesimo secolo. E il Milosz vi si inserisce non tanto come poeta e pensatore originale, quanto come uno di quegli uomini dolci, melanconici e affascinanti, di quei pellegrini dello spirito che non si stancavano di predicare amore ad una umanità che stava per sbranarsi.
Lo spettacolo è egregio. Costa lo ha avviato risolutamente nella direzione dell'oratorio, nella quale è maestro. Ha fatto vivere i simboli e i personaggi, che sono anch'essi dei simboli, in una sacra conversazione sul destino soprannaturale dell'uomo. E ha avuto nella creazione della sostanza figurativa, due eccellenti collaboratori nello scenografo Mario Chiari e nella costumista Maria De Matteis. Ne è uscita una sorta di autosacramentale, formalmente assai suggestivo, esattamente sottolineato dalle musiche originali di Roman Vlad.
Tino Carrara è stato un Manara particolarmente efficace nella rappresentazione del suo tormentato itinerario verso la fede. Gianni Santuccio ha dato commossa e persuasiva dolcezza all'abate della Caridad. Ilaria Occhini ha rappresentato con serena semplicità il breve ma determinante passaggio di Geronyma nella vita di Manara; Manlio Busoni era il nobile don Fernando, Loris Gizzi, un anziano gaudente, David Montemurri, appena un'apparizione, il doppio, la coscienza di Manara. Ricordiamo anche, tra i moltissimi interpreti, Rita Di Lernia, Pietro Biondi, Mario Valgoi, Michele Kalamera e Sandro Rossi.
Il pubblico ha ascoltato con rispettoso interesse il lavoro e ne ha calorosamente applaudito gli interpreti.
GIORGIO PROSPERI, Il Tempo, Roma, 23 Agosto 1962
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