Il colonialismo torna in scena (purtroppo)
In questo nostro tempo, tornano ad agitarsi fantasmi ben concreti, come il colonialismo, il razzismo, il disprezzo per le etnie diverse e distanti, l'intolleranza religiosa, l'insensato sfruttamento delle risorse naturali. Giunge dunque quanto mai pertinente la scelta, quale evento centrale della Festa del Teatro di San Miniato, edizione numero 57, di uno spettacolo dedicato alla figura e alla vicenda di Bartolomeo de Las Casas, frate domenicano, detto "l'apostolo degli Indios" per essersi battuto, in pieno Cinquecento, all'epoca della conquista spagnola del Nuovo Mondo, a favore dei diritti di quelle popolazioni delle quali era, a suo giudizio, da approvare e sostenere la conversione al Cristianesimo, ma non davvero la riduzione in stato di semischiavitù, o di completo servaggio. All'origine dell'azione drammatica un testo narrativo di Reinold Schneider, scrittore tedesco (1903-1958) di formazione cattolica, che, avendo vissuto la giovinezza sotto l'oppressione del regime nazista e da suo oppositore anche a rischio della vita, si dimostrava particolarmente sensibile a certi temi riproposti dalla storia. Mentre l'adattamento per la scena reca la firma di Roberto Mussapi, poeta e saggista italiano oggi cinquantenne, già peraltro sperimentato nel lavoro teatrale.
Due i momenti cruciali della parabola che in queste sere si svolge, dinanzi a un folto pubblico, nella congeniale piazza del Duomo della cittadina toscana: l'incontro dell'ormai anziano Bartolomeo, durante il viaggio di ritorno in patria dalle terre d'oltre Oceano, con Bernardino di Lares, testimone e insieme partecipe delle nefandezze consumate a danno degli abitanti di quella che un giorno sarà chiamata America Latina; colloquio che contribuisce a ridestare nel protagonista la dolorosa coscienza delle ribalderie da lui stesso compiute prima di dedicarsi alla nobile causa del riscatto dei popoli offesi. Poi, nella seconda parte della rappresentazione (sono in tutto due ore, intervallo compreso), ecco il triplice, decisivo confronto che il nostro eroe ha con Juan de Sepùlveda, un giurista cortigiano che teorizza l'inferiorità degli Indios rispetto alla gente bianca, e dunque la liceità se non proprio necessità del loro assoggettamento anche con modi brutali; con il Cardinale Loaisa di Siviglia, incarnazione di un potere confessionale strettamente congiunto con quello statuale; con lo stesso Imperatore Carlo V, il quale si mosterrà, alla fine, largamente convinto dalle ragioni esposte da Bartolomeo per avvalorare il concetto di una eguale dignità di tutti gli esseri umani, e sembrerà voler agire di conseguenza. Del resto, a quel punto, Bartolomeo ha ben sintetizzato la situazione, rivolto, più che all'imperatore, a quanti altri lo stanno ascoltando (e, s'intende, a noi, spettatori di oggi): "Che cosa, delle Nuove Indie, appartiene legittimamente alla Corona spagnola? Nient'altro che un mandato. Il Papa ha affidato alla Spagna il Nuovo Mondo per portarvi la fede, non per sconvolgere e distruggere. Il Nuovo Mondo appartiene ai suoi popoli! Né una conchiglia del mare, né un frutto degli alberi e dei campi ci appartiene, non un solo grammo d'oro è di nostra proprietà. La Spagna non ha compreso la propria missione: non dovevamo prendere, ma portare; questo era il nostro compito". E qui vien da riflettere sul fatto che alla "caccia all'oro" si sia andata sostituendo, in epoca recente e pur nell'attualità, la caccia al petrolio. Non parliamo della "caccia all'uranio", più che probabile invenzione usata per giustificare il protrarsi di un conflitto che si direbbe non dover avere mai termine. Così come il ruolo della superpotenza di allora, la Spagna, lo vediamo oggi assunto dagli Stati Uniti, con un codazzo di servili alleati. Ancora, è da citare, sempre pronunciata da Bartolomeo una battuta che suona oggi vieppiù illuminante: "Non è durante una guerra che possiamo conoscere i popoli, ma soltanto in pace, perché per la pace sono stati creati. Chi irrompe e attacca un popolo con le armi non lo vede. Con la prepotenza e la cupidigia si frantuma nell'uomo lo specchio in cui si riflette il volto di Dio".
La disputa dottrinale, che pure nello spettacolo ha il suo spazio, cede dunque il posto maggiore a quanto, in esso, rimanda al nostro presente, con limpidezza e senza stridenti forzature. Merito della calzante scrittura dell'opera e del suo felice allestimento, che si avvale della regia di Giovanni Maria Tenti, coadiuvato da Daniele Spisa per la scenografia, Massimo Poli per i costumi, Riccardo Tonelli per le luci. Affiatata e solerte la compagnia, nella quale ha spicco il duetto costituito da Franco Graziosi (Bartolomeo) e Renato De Carmine (Carlo V), amici di lunga data. Senza trascurare l'apporto di Beppe Chierici (Bernardino di Lares), tornato al teatro dopo la non dimenticata frequentazione delle canzoni di Geroges Brassens, di Franco Sangermano in una doppia parte (rilevante il ritratto che egli fornisce del Cardinale), di Walter Toschi che è il caustico Sepùlveda, di Roberto Birindelli, Francesco Gerardi, Ada Totaro.
Aggeo Savioli - L'Unità 20 luglio 2003
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