Sulla strada maestra insieme a Strindberg
Dobbiamo ritenere che la rinascita del dramma sacro (ma, accontentiamoci, anche solo di quello religioso o spiritualista) sia stata una generosa utopia di Silvio D'Amico? Si sarebbe indotti a pensarlo, visto che l'Istituto del Dramma Popolare non ha trovato, per questa sua 44esima Festa del Teatro, se non un testo, di ottanta anni fa, cioè quella «peregrinazione drammatica in sette stazioni» che Augusto Strindberg compose — ultima sua opera —nel 1909, intitolandola La grande strada maestra.
Indubbiamente, uno Strindberg che andava conosciuto e, che comunque, ci auguriamo, che con la sua problematica richiami altri a fare, e altri a promuovere, così indirizzati, il fare oggi per un sentire da cristiani contemporanei.
Nell'adattamento di Enrico Groppali l'opera, ora proposta, potrebbe farci chiedere, anzitutto, se il non essere mai stata rappresentata in Italia (e con poco successo all'Intima Teater di Stoccolma) non fosse da imputarsi a un suo difetto, cioè all'essere eccessivo diario e riassunto di un'esistenza e in più il peccare di oniricità e di una monotona posizione accusatrice nei riguardi del prossimo.
Rilievi forse pesanti e che certamente si possono giustificare per quanto attiene alla prima parte, densa di richiami a figure strane e di ardua decifrazione o a situazioni regresse di oscura (ma sempre affascinante) leggibilità, ma che devono cessare almeno davanti all'ultima delle Sette Stazioni in cui il testo è diviso, dove l'impennata lirica (frequentemente i versi si alternano alla prosa) si fa limpida, toccante, sincera preghiera, drammatico e fidente abbandono in Dio.
Un Dio, e la sua pace, sono cercati per tutto questo itinerario di delusione e di sofferenza, per tutto un cammino di errori confessati e per altro intrecciati alle colpe degli altri: perchè qui l'umanità è descritta come egoista e proditoria, e la salvezza è data dalla fuga dal mondo.
In queste annotazioni sconsolate e pungenti c'è molto di Strindberg, ma non tutto, perchè tra le pieghe emerge la capacità di tenerezza, la sensibilità delicata, lo struggente sentimento di un esilio, di una emarginazione, che distinse l'uomo, prima che non lo scrittore. L'invocazione, l'approdo, l'ultima confessione non sono uno scarto, ma la conclusione di un itinerario irto di ostacoli e di contraddizioni.
Il viaggio non è stato soltanto «all'interno di una umanità falsa e ipocrita, malvagia e crudele», come si è scritto; è stato anche un viaggio all'interno di se stesso e nella malinconia di una innocenza perduta.
Nella messinscena di Mario Morini, mal servito dalla gelida e rarefatta scena di Stefano Pace, questa peregrinazione (il vocabolo avvicina il senso di pellegrinaggio, di ascesa: è, in qualche misura, e per significativa analogia, un viaggio dantesco) appare come una seduta psicanalitica, essendo l'unico arredo una specie di divano. E gli incontri, non mutando il luogo e i suoi aspetti, sembrano piuttosto insistere su un carattere evocativo. I notevoli tagli e l'impostazione della dinamica attorale danno evidenza ulteriore alla figura centrale del Cacciatore, offrendogli il testo quasi come un monologo.
Apparizione, poi, significa, insieme, staticità ed elusività, mentre il «viaggio» è una ricerca a ritroso di eventi e di figure vive, per riviverli e di nuovo patirli. Il confronto è diretto, è «un presente». Da ciò la sua drammaticità. Il tutto, comunque, è esposto con eleganza e senso di ombrosa memoria di un passato dalle poche luci. Presto spente.
Le figure di contorno meglio riuscite sono quelle estrosamente disegnate e sostenute da Stefano Gragnani e Giancarlo Condè, con un piccante sostegno di vari ruoli; del pari, bene si comportano Mico Cundari e Carlo Simoni, Milena Vukotic e Gianluca Farnese, sempre efficaci nel proporre volti diversi. Protagonista ottimo è Massimo Foschi, che il personaggio del Cacciatore-Strindberg, elabora con fermezza e intensità, duttilmente cogliendo la gamma dei toni legati alla complessità del personaggio.
Sono piaciuti tutti e sono stati molto applauditi.
ODOARDO BERTANI, Avvenire, 22 luglio 1990
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