La recensione
Dramma di un giovane di nome Wojtyla
Scritto nei primi mesi del 1940, anzi, se dobbiamo stare alla precisazione posta in calce al testo dallo stesso autore (che all'epoca aveva 20 anni), «durante la Quaresima» di quell'anno, il Giobbe di Karol Wojtyla, in strettissima consonanza (e compartecipazione) col terribile dramma della guerra, assume quale proprio tema centrale, ed esclusivo, il dolore che investe e travolge la vita dell'uomo; e, quale diretta, affannosa conseguenza, la domanda circa il perché di tale dolore. Nonostante i riferimenti espilati alla condizione storica d'allora (il «voi, calpestati/ voi, flagellati/ voi, condannati ai lavori forzati...» — che vien più volte ripetuto), tema e domanda elevano il loro significato fuori da qualunque tempo preciso; e, questo, proprio perché il tempo in cui le parole del dramma furono scritte possa essere vissuto, non solo nel suo limite storico, ma, insieme, nella sua significazione plenaria; quella significazione che porta, per l'appunto, dolore e suo senso, a iscriversi dentro le pagine d'un Disegno superiore e supremo e così a esistere, ciechi sì, ma fuori dalla cecità.
Il dramma ha, insieme, la struttura d'una sacra rappresentazione e quella d'una tragedia precristiana; denotazione, quest'ultima, che può leggersi con assoluta evidenza nell'ingresso, iterato, degli annunciatori di rovina e di morte. In questo tentativo di fondere due delle esperienze centrali della drammaturgia dell'uomo, Karol Wojtyla si pone sulla linea su cui, tre anni prima, Eliot aveva scritto il suo famoso Assassinio nella cattedrale.
Tale rapporto trova un'ulteriore conferma nella naturalezza con cui Prologo ed Epilogo diventano personaggi; e nel ritmo, anch'esso poetico, che assumono le didascalie. Quest'ultime, anzi, nel loro mescolare il presente dell'azione al passato della narrazione biblica, offrono la chiave esatta per interpretare e mettere in scena, anzi in atto, il dramma stesso.
Sul punto di festeggiare la sua pace, la sua ricchezza e gli amici che vengono a trovarlo, Giobbe vien investito, come da terribili folate di vento, da una catena, senza sosta, di notizie. Sono notizie del disastro dei suoi averi; del disastro del suo potere; e del disastro stesso della sua famiglia. Di colpo, seguendo un ritmo proprio agli eventi tragici, dalla festa si passa al lutto. E' a questo punto che Giobbe apre la sua ribellione. Ma, non la apre in termini di «bestemmia», quanto in termini di conoscenza. La sua ribellione riguarda, insomma, il «perché» della morte e della rovina ohe Dio ha abbattuto su di lui. In quest'azione Wojtyla, avvolge il protagonista di tutta la sua simpatelicita; e affezione.
L'autore sa quanto siano terribili da portare e sopportare il dolore, la morte, la miseria, il lutto. Del resto la risposta che vien offerta a Giobbe, dunque al dramma stesso, da Eliu, lo «scelto del Signore», sembra essere il frutto della sofferenza, in tutto umana, del protagonista. Ancorché sia, prima ancora, segno e dono della Grazia. O, forse, è l'accordarsi della Grazia al breve, misero merito, nel dolore, di Giobbe. Comunque la risposta è redentrice e, dunque, drammaturgicamente catartica nella misura in cui non risolve, narrativamente, tema e domanda, ma in cui li travolge nell'esemplarità fecondante del dolore per antonomasia; quello della Croce. Che, di fatto, appare, alla fine del dramma, «in alto, tra il chiarore, sulla montagna». Lo scandalo dei legni sacri di Cristo diventa così il luogo deputato a rinominare e a spiegare, nella compartecipazione totale del Figlio di Dio, il dolore di sempre dell'uomo di sempre.
Giovanni Testori, Corriere della Sera, Milano, 26 Luglio 1985
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