La recensione
Nei drammi di Luzi l'immagine di una società in declino
Da noi, si sa, non è che abbondino gli scrittori di teatro, e quando i letterati hanno cercato di accostarsi al palcoscenico l'esperimento si è risolto quasi sempre in un mezzo disastro. Coraggiosa, ed anche un po' «provocatoria» suonava dunque la scelta dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, che, in occasione della trentatreesima Festa del teatro, rappresenta "Ipazia e il Messaggero" di Mario Luzi, una delle voci più intense del nostro panorama poetico, che si cimentava qui per la prima volta in veste d'autore drammatico.
Ed è stato davvero sorprendente scoprire che proprio dalla ricerca solitaria di un poeta ci vengono due fra i pezzi più attuali e problematici, ed anche fra i più compiuti e maturi dal punto di vista della cultura scenica, che abbia dato in questi anni il teatro italiano; sempre che, naturalmente, si intenda la teatralità nel senso più del logos sulla scena, e l'attualità nella sua concezione più allusiva e mimetica.
Non deve essere, questa di Luzi, una vocazione improvvisata, che già una quindicina di anni orsono Marco Forit rilevava nei suoi versi un «gusto naturale per il recitativo», un «parlato che par muovere la scena», la tendenza, quasi, a «un teatro interiore». Il passaggio al teatro vero e proprio, voce e corpo d'attori, avviene col calarsi di questa poesia nei conflitti già tutti «drammatici» della storia, una storia che non sia tanto cronaca d'avvenimenti, quanto ideale punto d'incontro fra passato e avvenire, e momento dalla loro conflagrazione nel segreto alveo della coscienza.
I due testi, che sono poi le diverse facce di uno stesso dramma, ci portano dunque fra Alessandria e Cirene agli inizi del quinto secolo, nel pieno dello scontro fra «cecità offesa dal paganesimo retrivo» e «cecità fanatica più cristianesimo eversivo», in un tempo di crisi e di strapazzi assai simile al nostro. Su questo sfondo di contrasti e di convulsioni collettive si svolgono le vicende simmetriche e speculari di Ipazia e del suo discepolo Sinesio.
Ipazia, filosofessa neoplatonica, è ad Alessandria la depositaria dell'antica cultura ellenistica, ma avverte al tempo stesso l'imminente trasformazione che si opererà col cristianesimo. I suoi discorsi sulla tolleranza e la ragione sono giudicati pericolosi, perché rischiano di provocare disordini: ma Ipazia, cosciente che proprio dal disordine scaturiscono gli sviluppi della storia, accetta la propria sorte e va a farsi massacrare dai cristiani inferociti, vittima sacrificale del passaggio da un vecchio a un nuovo ordine. Sinesio, convertitosi al cristianesimo e divenuto vescovo di Cirene, apprende che un messaggero dei selvaggi Berberi marcia sulla città per conferire con lui: l'avanzata del misterioso cavaliere è fonte di inquietudine per le gerarchie politiche e religiose, e solo il vescovo è favorevole alla «trattativa» col portatore di valori nuovi e ignoti. Quando il messaggero verrà ucciso verrà dunque Sinesio, da solo, a farsi incontro ai Berberi minacciosi.
Al centro dei due drammi, elaborati in un linguaggio di forte spessore poetico che tuttavia non scade mai a mero sfogo letterario, è dunque la storia con «i suoi ingranaggi, i suoi tentati rotismi: precipitarsi dentro è necessario, ma non vale a fermarli». La conservazione, l'attaccamento all'ordine del passato sono innati nell'uomo, ma «il passato è un seme del futuro o niente». L'irruzione del nuovo è anarchia e disordine, «con il marciume porta via anche il sano», ma chiudersi al nuovo è «una fonte interrata, una vena ostruita». In questo conflitto, universale ed insanabile, Luzi non assume mai scadenze astratte, non si rapprende in rigide metafore, ma palpita e vive nei due protagonisti, che lo colorano dei loro dilemmi, delle loro lacerazioni esistenziali: Ipazia della sua speranza, della sua aspirazione a superare le contraddizioni, Sinesio nella sua disperata coscienza dell'errore sempre presente.
Pure, "Ipazia e II Messaggero" sono anche, o forse sono in primo luogo, drammi corali, in cui a dominare prepotentemente è soprattutto l'immagine di una civiltà in declino, di una «città nevrotica» percorsa ed aggredita da «cieche moltitudini», dove il potere ha perso ogni legittimazione e «non ci sono leggi che impediscano e non ci sono leggi che proteggano. Non ci sono leggi affatto». In questo quadro di disgregazione sta indubbiamente il forte sapore d'attualità dei testi di Luzi, anche se è un'attualità da prendere con le molle, come ammonisce il poeta nel prologo, e come sottolinea Geno Pampaloni nella prefazione al volume che li raccoglie (edizione Rizzoli), sottolineando che «la poesia è profetica, ma nell'ordine del sentimento». Eppure, forse è proprio questo a ricondurre tutto «allo spazio profondo dell'essere» che risulta profondamente attuale in un tempo in cui, sfuggendo il disegno complessivo degli avvenimenti, l'attenzione può solo appuntarsi sui dubbi e i trasalimenti della coscienza.
Il nitore poetico e dialogico dei drammi di Luzi è stato posto in risalto, nella regia di Orazio Costa, da uno spettacolo nudo ed essenziale, quasi un oratorio. L'azione, tutta orizzontale, da bassorilievo, si svolge al proscenio mentre il palcoscenico è chiuso da pannelli con immagini fatiscenti di Alessandria e Cirene. Unici arredi, sedie e poltrone di bambù che ci richiamano all'oggi.
Questa rinuncia preventiva agli spazi e alle prospettive e ai movimenti del teatro, che indica forse una residua sfiducia nella «spettacolarità» dei testi, è compensata dall'intensa prova dei protagonisti, lo straordinario Massimo De Francovich, attore ormai approdato a una piena ed utile maturità espressiva, la passionale e tuttavia lucidissima Ilaria Cechini, che dà a Ipazia un risalto febbrile, il sempre sottile Gianrico Tedeschi, la Salvati, la Bassi, il Toscano, il Salvi, il Gundari, il Rossi. Nell'insieme tre ore di spettacolo, e tutte impegnative: ma il pubblico ha risposto con molto calore.
Renato Palazzi Corriere della Sera, Milano, 26 Luglio 1979
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