L'austera solennità di Claudel
Mentre la Rocca, da un tedesco, Federigo II, fatta costruire nel 1218 e dai tedeschi fatta saltare nel 1944, sta risorgendo dalle sue rovine e San Miniato a poco a poco riprende la sua vecchia e familiare sagoma caratteristica, la più originale tradizione della vetusta città, protetta da San Genesio, celebra il suo undicesimo annuale con una manifestazione di alta spiritualità, dedicata come sempre al martire, che è anche protettore degli artisti di teatro. Già dicemmo, giorni addietro, come la scelta del testo, da inscenare in questa undicesima festa, fosse caduta su un'opera, che può considerarsi nuova per i pubblici italiani, giacché fu messa in scena a Milano e non fu data in altra città nell'ormai lontano 1926 da Gualtiero Tumiati, cui si deve il merito di aver fatto conoscere alle nostre platee il repertorio drammatico di Paul Claudel. L'Ostaggio, di cui abbiamo già dato per esteso la trama, è stato ieri sera ripreso in una edizione di eccellente classe, nella monumentale chiesa di San Francesco, che si eleva a mezza costa, fra la ubertosa piana dell'Arno e il verde colle, su cui l'antica torre sta riattingendo il cielo.
L'Ostaggio è il dramma della libertà religiosa, rappresentata dal Pontefice imprigionato da Napoleone e del sacrificio d'amore per la salvezza della fede. Sygne è la donna, l'unica donna del dramma, che sta al centro della vicenda e che rinuncia ad ogni sua falicità per un altissimo scopo patriottico e religioso, perché Paul Claudel non ha visto soltanto il dramma intimo della donna, posta ad un bivio tremendo, ma l'ha ammantato di un più largo respiro tragico, col far dipendere addirittura dalla decisione della donna il destino della cristianità. Così il sacrificio di Sygne si sublima di un significato ultraterreno, che da a tutto lo svolgersi della vicenda una simbolica astrazione.
Il dramma si inizia lineare, senza soverchia preparazione. L'autore, nella sua abituale prolissità e nella sua letteraria esuberanza, non si indugia nell'antefatto: la distruzione di una famiglia nobile per mano dei rivoluzionari, vien descritta nervosamente nel dialogo fra Sygne e il suo superstite parente Giorgio di Coùfontaine, il quale dichiarandole il suo amore e il desiderio, contraccambiato, di ricostruire non solo la sua famiglia, ma la vecchia Francia monarchica, le rivela di avere con sé un Ostaggio prezioso: il papa Pio VII, che egli ha liberato dalla prigionia. Sygne giura che sarà sua e che lo coadiuverà nel suo grande disegno.
Ma ecco che il nascondiglio del Pontefice viene scoperto e il Prefetto del Dipartimento, un ex servo di casa Coùfontaine, elevato a sì alto grado dal nuovo improvvisato regime, macchiato di sangue dei suoi vecchi padroni, rude e senza scrupoli, Ognissanti Turelure, ha l'ardire di presentarsi a Sygne per offrire un mercato: egli ignorerà la presenza del grande Ostaggio e ne faciliterà la completa liberazione, ma pretenderà la sua mano. La scena, in cui la sfrontatezza del ben tratteggiato personaggio urta con la irremovibile volontà di Sygne, si snoda in un tono fra conformista e letterario, da teatro borghese, al quale fa contrasto la scena seguente, fra Sygne e il curato Badilon, bellissima per intensità drammatica e per un diffuso alone di poetica umanità, nella quale il vecchio prete riesce con accorate e profonde parole a convincere la donna a compiere il più terribile dei sacrifici, sposando il nemico acerrimo delle sue idealità e il massacratore della sua famiglia.
Con la rassegnata accettazione di Sygne il dramma è già compiuto: i due atti lo concludono in una linea di austerità e di solennità veramente degna di un poeta come Paul Claudel. Ma le esigenze, forse, teatrali, più che la visione simbolica, che del dramma ha avuto ed ha voluto rendere il suo autore, hanno fatto sì che il terzo atto non aggiunga gran che al saldo e forte nucleo del dramma: sa di aggiunta e di un'aggiunta stilisticamente diversa, in cui la ricchezza di un linguaggio quasi si rarefa in uno schematismo che, teatralmente, lascia insoddisfatti e psicologicamente rende perplessi, non solo per l'artificio della sua sanguinosa conclusione, ma specialmente per quella morte di Sygne, che par contraddire tutta la bellezza del suo immane sacrificio. Anche le parole, messe in bocca a Turelure, hanno sinistre risonanze, mentre dovrebbero avere la rivelazione di una verità, che erompe dal fondo di un'anima. Tuttavia lo stesso poeta ha previsto lo strano effetto di questa conclusione ed ha cercato di giustificarlo scrivendo di «aver voluto rappresentare la lotta di anime, a momenti docili, a momenti ribelli, con la Grazia».
L'Istituto del Dramma Popolare, continuando, con bella tenacia, nel suo programma di offrire al pubblico testi validi di sacre rappresentazioni moderne, ha voluto dare alla interpretazione de L'Ostaggio un clima che ben si addicesse al suo intrinseco valore spirituale. Mario Ferrerò, giovine, ma già esperto regista, al quale si devono importanti messe in scena di opere le più svariate, ha sentito come armoniosamente convivessero ne L'Ostaggio le ragioni passionali e quelle religiose e come esse fossero formulate in termini visibilmente teatrali. Così ha reso con sensibilità e con coloritura di accenti questa bene amalgamata armonia, dando elevazione spirituale alle parole e rendendole spesso trasparenti, pure in indefinibili lontananze, senza però togliere loro quella carica passionale, che le accende di umanità. In tale atmosfera Lillà Brignone ha vissuto il dramma di Sygne con una intensità di espressione ed una finezza di passaggi da grande attrice, meritandosi nella superba scena della acccttazione del sacrificio, dinanzi alla croce, l'ammirazione più viva dell'uditorio. E con lei, magnifico per semplicità di recitazione e profondità di sentita commozione ci è parso Gualtiero Tumiati, che ha disegnato con austera, quasi ieratica, linea la figura del curato Badilon. Con che piacere abbiamo rivisto l'ottantaduenne artista ancora così valido ed efficiente, non è facile dirlo. Si è risentito in lui una scuola di sincerità, che ci ha riempito di gioia.
Gianni Santuccio ha inbroccato con autorevolezza e con sapore il tipo di Turelure. Ne ha capito con intelligenza l'animo, l'esponente del «terzo stato», in cui scaltrezza ed ambizione si danno la mano su un fondo di rozza ignoranza. Ne ha colorito i contorni con appropriate pennellate.
Carlo D'Angelo era il visconte di Coùfontaine, con la sua istintiva semplicità e le sue contraddizioni. Da artista preciso ed esperto ne ha reso il carattere, tutt'altro che facile, con chiara evidenza, mettendo in risalto la sua cieca esasperata fedeltà al vecchio regime, che vorrebbe restaurare. Dolce e violento non ha saputo rassegnarsi alla sua rinuncia.
Una figura, di non comune levatura e di difficilissima interpretazione, era quella di Pio VII, che Orazio Costa, passando, come altre volte, dal ruolo di regista a quello di attore, ha saputo concretizzare con intelligente intuito assolvendo al suo assunto con onore.
I costumi erano stati eseguiti su bene studiati bozzetti di Maria De Matteis, che li ha mantenuti in toni severi molto appropriati al carattere dell'opera. Le scene, ricche di drappeggi, sono parse realisticamente e simbolicamente funzionali.
Il pubblico, bellissimo e folto, in cui figuravano non poche autorità e che gremiva la vasta navata del tempio, ha ascoltato con religiosa attenzione L'Ostaggio, festeggiando con calorose chiamate tutti gli interpreti e il regista, coronando così nel modo più lusinghiero l'undicesima fatica artistica dell'Istituto del Dramma Popolare.
Domani sera prima replica alla presenza del Presidente del Consiglio Adone Zoli.
Giulio Bucciolini, La Nazione, Firenze, 26 Settembre 1957
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