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La recensione di Nazareno Fabbretti
 

Barabba, dramma dei giusti
In piena crisi economica e tra moke difficoltà di ogni genere, l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ha compiuto trenta anni di vita e ha partorito simultaneamente uno degli spettacoli più straordinari e felici della sua coraggiosa ed avventurosa esistenza. Anche la crisi, certe volte, offre i frutti migliori e più inattesi.
Il « salvataggio », almeno in senso teatrale, culturale, spettacolare, è dovuto al Barabba di Michel De Ghelderode, un dramma davvero molto « popolare » e attuale, come la linea di San Miniato esige, anche se fortemente datato. È infatti del 1929, ed arriva in Italia, nella nostra lingua, dopo un'unica rappresentazione in lingua fiamminga a Venezia il 5 luglio 1954, quasi mezzo secolo dopo. De Ghelderode scrisse contemporaneamente in francese e fiammingo, mescolando nella sua tematica diavolo e acqua santa, streghe e mistici, fermenti nibelunghici e devozioni popolari latine, Carro di Tespi e Sacre Rappresentazioni, bestemmie e preghiere.
Il suo Barabba, dopo cinquantanni è inevitabilmente pieno di polvere. La traduzione di Pier Benedetto Bertoli ha tolto tutta quella polvere e ha sfrondato molte frasche di un espressionismo d'alta classe, ma qua e là indubbiamente eccessivo, cavandone fuori tutte le intense ragioni poetiche, umane, sociali e religiose che prepotentemente fermentano ancora il dramma.
Quella di Bertoli è una tradizione-ricreazione, alla quale Josè Quaglio ha dato una regia asciutta e insieme, com'è giusto, popolarescamente clamorosa, provocatoria, piena d'invenzioni legittime e straordinariamente attualizzanti.
Tutti gli attori, su registri personali diversi, hanno risposto in modo sostanzialmente egregio sia al testo che alla regia, soprattutto per la straordinaria contemporaneità che l'opera loro offriva. Antonio Salines è stato un Barabba torbido e lucido, sbracato e struggente, assassino e sognatore, ribelle prima per odio e poi per amore; un ottimo attore per ogni sentimento, capace d'obbedire all'espressionismo del testo e, nello stesso tempo, al rigore della regia. Vittorio Sanipoli e Carlo Hintermann hanno onorato eccellentemente mestiere e tradizione, intuizione e partecipazione, nei rispettivi personaggi di Caifa e di Erode.
Una felice rivelazione è stata senza dubbio Marcello Bertini nella parte di Giuda: un Giuda atroce e disfatto, marrano e innamorato, traditore predestinato e insieme lacerato d'amore per quella predestinazione. Bertini è stato di una quasi incredibile misura nella difficile parte, mai a scapito della disperata intensità del personaggio evangelico.
Molto affiatato del resto tutto il gruppo degli interpreti con Felice Leveratto, Renzo Rinaldi, Francesca Romana Coluzzi (una Maddalena « apocrifa » e insieme abbastanza efficace come testimone, in quanto donna e « innamorata » del vero spirito e senso della Passione di Cristo ). Libero Sansavini, Luigi Cortopassi, Gianni Guerrieri, Giorgio Locuratolo, Patrizia De Clara e Laura De Marchi.
Il Barabba di De Ghelderode è la passione e la morte di Cristo « viste dai bassifondi di Gerusalemme », come ricordano sia l'autore che il traduttore. Siamo ovviamente nell'« apocrifo », ma nel senso più teatralmente plausibile. È una tragedia, una sconfitta e insieme una vittoria di popolo mai del tutto disgiunte. Presenta un violento, dissacramente e conflittuale « gioco delle parti », in cui il Potere opera, in nome di Dio e del popolo, sempre a qualunque prezzo per il proprio trionfo.
Lo stesso Barabba, liberato solo perché Cristo sia condannato, si trova oppresso dalla sua inutile e inattesa libertà, e dopo aver gridato — pieno di speranza nella sommossa dei poveri che pensa di scatenare — « viva l'anarchia! », viene pugnalato alla schiena non direttamente dai Potenti, ma dai Buffoni, cioè dai servi sciocchi e più disponibili di cui ogni Potere dispone.
Barabba scopre troppo tardi che solo e sempre per un gioco o un conflitto di poteri si è condannati, innocenti o colpevoli che si sia. Da quel momento egli scopre che la liberazione non è sempre la libertà, neppure per gli schiavi, i delinquenti ed i poveri, anzi men che meno per loro. Ed è in quel momento che, come un bue scannato a tradimento, tende la mano verso il Calvario e invoca Gesù come « fratello ».
La Farsa ha avuto la meglio sulla stessa Tragedia, per mano dei Buffoni, ma non può nulla contro la libertà della coscienza. Proprio Erode, il non-impegnato, l'amorale per eccellenza, spiega, paradossalmente, a Barabba le beffe del Potere ai danni dei poveri: « Ti hanno tolto le catene, ma non la ferocia, non lo spirito di vendetta. Io penso ohe quanto prima ti segnalerai all'attenzione dei liberatori ». E Barabba constata subito l'abiezione di certe scarcerazioni strumentali:  « Mi credono passato ai farisei, protetto dai sacerdoti. L'abiezione dei miei giudici ricade su di me. Io sono un complice ».
È impossibile non vedere chiaramente nella angoscia e nella speranza di questo Barabba un emblema straordinariamente attuale della condizione in cui tutti ci dibattiamo. La sete e fame di giustizia giustifica la ribellione? Pietro, sebbene rinnegatore e spergiuro, dice a Barabba: « Sì, tu sei un ribelle. Spera, ribelle, e sarai salvo ». E Barabba: « Non è questione di salvare la pelle. Ribelle, certo. E perciò ho fame di giustizia ».
La sua ultima illusione è che scoppi finalmente la rivoluzione dei disperati e cambi il mondo. Egli grida agli Apostoli che stanno fuggendo quando vedono che Cristo è definitivamente morto: « Vigliacchi, dove scappate? È troppo tardi. La sommossa è cominciata. La città è nostra. All'assalto del Calvario! Bisogna portare il cadavere per le strade, davanti ai palazzi. Ci vuole del sangue, del fuoco. La pagheranno, compagni, hanno ucciso colui che voleva buttare tutto all'aria. È morto per le idee che sono le nostre idee. A noi far trionfare la sua causa. Abbasso i sacerdoti, i giudici, i ricchi, gli sfruttatori. Abbasso la schiavitù! Viva l'anarchia! ».
Soltanto col pugnale del Buffone già affondato nella propria schiena, Barabba scopre ed accetta, nel momento stesso della morte, la non-violenza del crocifisso, P« utopia » che salverà i poveri, ma nessuno sa quando: « Io muoio per niente. Però è per causa tua, è per te, Gesù, fratello ».
C'è chi teme che questa trentesima festa del teatro popolare di San Miniato sarà l'ultima. I soldi non bastano. Manca un pluralismo politico e culturale adeguato agli impegni del gruppo organizzatore, mancano strutture e coordinamenti sufficienti per « esportare » da San Miniato in altre zone spettacoli come questo, di interesse indubbiamente nazionale.
Ma Don Luciano Marruca, succeduto come direttore all'indimenticabile Don Ruggini e a Padre Davanzati è giovane, colto, temerario ed « equilibrista » quanto occorre in questo momento particolarmente difficile. Dopo i primi quindici anni di splendore di questi spettacoli, e dopo la caduta di scelte di livello non rare degli anni seguenti, tutto effettivamente a San Miniato, per colpa della scarsità dei mezzi, potrebbe finire. Ma questo Barabba, e l'efficacia con cui è stato impiantato e realizzato, dimostrano che tutto, invece può e deve ricominciare.
Nazareno Fabbretti Gazzetta del Popolo, Torino, 30 Luglio 1976




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