Il dramma dei Templari
Riproporre oggi, tempo del disincanto, l'oscura e controversa vicenda medioevale dei Templari, richiede anche del coraggio. L'ha avuto l'Istituto del dramma popolare (recentemente divenuto Fondazione) di S. Miniato, massima iniziativa nazionale che scandaglia il mare poco solcato di un "Teatro dello Spirito" in cui la religione non vuole essere contenuto, ma solo sfondo teso a riproporre le domande fondamentali dell'uomo.
Piatto forte del 56° ciclo di spettacoli è stato, infatti, per la regia di Pino Manzari, I Templari, un bel testo di Elena Bono, poetessa, drammaturga e traduttrice di Sofocle.
Si tratta di un testo sdoppiato, che raggiunge notevoli vette di elegante schermaglia intellettuale in un profondo e articolato dialogo sul dominio, e di forte impatto passionale nella parallela vicenda di poveri popolani travolti dalle lotte dei potenti.
La scena di Daniele Spisa ritaglia plasticamente questi due mondi contrapposti. Ad un sotterraneo in cui un morente novizio templare giace assistito da una giovane donna, la Gisa, da uno scudiero ribaldo e da un ragazzino mezzo musulmano, è sovrapposta la stanza di una torre in cui duellano a parole un rappresentante della nobiltà (l'Uomo Nero) e del clero (il Precettore), impegnati, il primo a strappare i segreti dell'Ordine Templare ed il secondo a guadagnare la vita per sé e per i propri compagni.
La vicenda si svolge al tempo della tragica fine della lunga parabola della comunità religiosa dei monaci guerrieri, iniziata nel 1119 ed istituzionalizzata quasi un decennio più tardi nella regola dettata da Bernardo di Chiaravalle.
In due secoli l'ordine cavalleresco, sorto a difesa dei pellegrini in Terrasanta e dei luoghi santi dall'invasione islamica, conobbe un eccezionale successo militare, economico e politico. Venne stritolato, all'inizio del XIV secolo, dalla lotta tra Papato e Impero, lotta non solo religiosa e politica, ma anche sociale e culturale tra la classe di feudatari e "dell'alta usura chiamata banca" e le forze del cambiamento egualitario incarnate dai Templari.
Filippo IV re di Francia, alleato alla famiglia Colonna, ebbe ragione (fin quasi ad assassinarlo nei famoso episodio di Anagni) di Bonifacio VIII ed alla fine riuscì a far eleggere papa il francese Bertrand de Goui, arcivescovo di Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V.
I Templari entrarono in rotta di collisione col re quando questi tentò di mettere le mani sulle loro ricchezze per finanziare le sue guerre di espansione. In sette anni, l'Ordine venne distrutto ed i suoi ultimi rappresentanti bruciati sul rogo. Il 1314 vide le fiamme avvolgere l'ultimo Gran Maestro Jacques de Molay e la morte togliere dal teatro della storia Clemente V e Filippo detto il Bello. Il dramma di Elena Bono si colloca nel marzo del 1310.
Una comunità templare nel Napoletano è in prigione ed il loro accusatore, l'Uomo Nero, offre salvezza in cambio dei segreti (e delle ricchezze) dell'Ordine. Un duello stringente ed ironico, giocato sul filo di una raffinata intelligenza, lo oppone al Precettore, capo dei Templari prigionieri.
Contemporaneamente, nel sotterraneo, un idealista novizio templare ("un novizio, di questi tempi?"), unico ad opporsi all'arresto dei compagni, sta per morire. Al suo capezzale un altro aspro contrasto, cui fa da contrappunto l'allegra semplicità di un bambino: quello tra la Gisa, popolana di facili costumi ma avviata alla redenzione dal sentimento, e lo scudiere Rocco da Sezze, rozzo odiatore dei più fortunati.
Entrambi i mondi, differenziati dal linguaggio colto in italiano, latino e francese dei potenti e da quello primitivo di un arcaico dialetto (peraltro del tutto intelligibile) dei popolani, sono attraversati dal filo rosso della paternità negata: lo scudiere è nato in prigione figlio di sconosciuto, la ragazza è stata addirittura violentata dal padre, il ragazzo è un trovatello e lo stesso Uomo Nero è figlio bastardo di re. Un re che lo voleva far abortire ma che sua madre invece portò alla nascita e ad una condizione nobile, aiutata da un prestito a basso interesse offertole proprio dai Templari.
Il complesso del reietto lo porta a negare Dio quale immagine paterna e, con Lui, ogni forma di morale. Questo lo spingerà ad eliminare, col fuoco che non lascia traccia, ogni scomodo testimone del suo operato: il novizio con la consolazione di una falsa cerimonia di investitura a Templare, la ragazza come liberazione dalla sua infelice condizione esistenziale, lo scudiere con la rabbia del perdente.
Da un testo impegnativo e colto, il regista Pino Manzari ha tratto uno spettacolo coinvolgente, giocato sul registro del rigore, con alcune concessioni sentimentali solo nel finale.
Di grande rilievo le interpretazioni. Le eloquenti pause dell'Uomo Nero di Umberto Ceriani sono perfette nel sottolineare i continui passaggi tra le contrastanti sfaccettature della sua tormentata personalità e tra i linguaggi dell'ironia e della minaccia. Il suo dialogo con il severo Precettore Templare di Marco Spiga è una godibilissima lezione di insinuante intelligenza.
Massimo Foschi dà allo scudiere Rocco da Sezze la carnale carica della vittima vendicativa, brutale e deridente ma mai rassegnata, contrastato dalla passionalità della Gisa di Maria Elena Camaiori.
Convincenti il servile e infido carceriere di Gabriele Carli, l'allucinato novizio di Mattia Battistini, la superficialità della serva Tota di Silvia Pagnin, mentre una particolare sottolineatura merita Federico Orsetti, un Alì, ragazzo mezzo cristiano e mezzo musulmano, che riesce a strappare gli unici sorrisi ad un pubblico cui viene richiesto un impegno importante, cadenzato dalle voci e musiche del coro di S. Miniato.
Antonio Baldo, La Voce dei Berici, 25 agosto 2002
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