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La recensione di Giovanni Lombardi
 

La recensione

 

Messaggio attuale nella storia di Tommaso Moro

L'antico e drammatico conflitto fra la coscienza individuale e le istituzioni, fra le scelte personali e la ragione di stato, fra la coerenza morale (spesso derisa e incompresa) e la compromissione dilagante, costituisce il motivo conduttore del lavoro di Robert Bolt presentato in occasione della XXVIII edizione della Festa del teatro a San Miniato promossa dall'Istituto del dramma popolare.
Le ragioni della scelta di questo lavoro — già rappresentato in Italia nel '61 e proposto con successo in un film di Zinnemann — vengono spiegate da una puntuale motivazione critica del presidente dell'Istituto attraverso uno stimolante parallelo ideale fra i primi decenni del 1500 — carichi di fiducia nella scienza e nelle capacità umane — e la situazione di oggi che presenta inquietanti analogie e si presta a identiche e amare considerazioni sulla psicologia dell'uomo, sulle sue debolezze e, soprattutto sul condizionamento alienante che la società, espressa attraverso le varie forme di potere, esercita su di lui.
Questo, a nostro avviso, il valore primario dell'opera di Bolt che, dopo quindici anni, si presenta ancora fresca ed attuale non soltanto per la tematica che affronta — e che attraverso la vicenda personale di Tommaso Moro evoca alla nostra mente vari momenti tragici della storia di tutti i tempi — ma per i significati che ha inteso scavarvi dentro, per la simbologia chiaramente dilatabile, per l'uso di strumenti teatrali che si rifanno — come dice lo stesso autore — alla lezione di Bertold Brecht.
"Un uomo per tutte le stagioni" è la storia di Tommaso Moro, nello sfondo dell'Inghilterra dominata dalla sanguigna figura di Enrico VIII: fine umanista, sottile conoscitore delle leggi, amico di Erasmo da Rotterdam, autore di "Utopia", in cui ipotizza una repubblica ideale, Tommaso Moro percorre la carriera politica fino a diventare Lord Cancelliere. Proprio a questo punto esplode il contrasto col re che pretende avallo per il ripudio di Caterina d'Aragona e per il nuovo matrimonio con Anna Bolena. L'isolamento di fronte alla pretesa reale è pressoché totale (lo stesso clero firma un atto di sottomissione al re) e Tommaso Moro, rimane abbandonato, recuperando però alla fine l'affetto della famiglia smarrita e soprattutto della figlia Margaret, alla quale dedica le Lettere della prigionia, un'alta testimonianza della nobiltà con cui affronterà il patibolo il 6 luglio del 1535.
La condanna, immotivata sul piano giuridico e morale, lo colpirà per le sue convinzioni e per le sue idee, l'accusa sarà quella consueta di «tradimento nei confronti dello Stato»: di qui l'attualità e la pregnanza del messaggio di Bolt che ha utilizzato alcuni brani dello stesso Moro, un messaggio che, pur muovendosi attraverso una angolazione religiosa (ma fuori degli schemi dogmatici ed autoritari) si dilata temporalmente e ideologicamente proponendo allo spettatore la evocazione non arbitraria di personalità che hanno pagato per la fedeltà alle loro idee lungo l'arco della tormentata vicenda umana (Socrate e Cristo, Giordano Bruno e Matteotti, Campanella e Granisci).
A ben guardare, l'«eternità» del potere ha pesato e continua a pesare sulle vicissitudini dell'uomo, per cui la conclusione del lavoro di Bolt si propone come un invito alla coerenza fino al sacrificio, alla fiducia nei valori più alti, proprio nel momento in cui essi sembrano smarrirsi nella rinuncia, nel compromesso, nella passiva abdicazione a giocare un ruolo nella società, a battersi per migliorarla e trasformarla.
L'esecuzione è stata ottima: l'incomparabile sfondo dell'antico piazzale circondato da vetusti alberi, la presenza viva della natura col canto degli uccelli notturni, si sono ben prestati ad una scenografia essenzializzata e funzionale che ha consentito una fortunata rapidità di mutamenti tale da non intaccare il clima di tensione che accompagna lo svilupparsi della vicenda di Tommaso Moro. Così, come la utilizzazione del narratore, dell'uomo qualsiasi, istrionica figura mirante al particolare (e disegnata molto bene da Salvatore Puntillo) ci è apparsa indovinata e corretta perché ha saputo evitare lo scadimento del didascalico, appunto per lasciare — come voleva Brecht — allo spettatore la piena autonomia critica.
La figura di Tommaso Moro è stata interpretata da un Araldo Tieri nel meglio delle sue possibilità artistiche: egli ne ha ripercorso con sofferta partecipazione le alterne fasi della vita: la brillantezza dell'eloquio, lo sferzante humor, le salaci battute, fino al progressivo spegnimento di ogni resistenza di fronte alla ineluttabilità della ingiusta condanna. Carlo Hintermann è stato un ottimo e tormentato Duca di Norfolk, mentre Antonio Salines ci ha offerto un'alta prova nel difficile personaggio di Cromwell fatto di chiaroscuri e di intricati risvolti psicologici. Bene Giuliana Lojodice nella parte della moglie, Sirena Spaziani, in quella della figlia. Sono da accomunare nella resa corale Felice Leveratto, Riccardo Perucchetti, lo stesso Joè Quaglio, Flavio Bucci (un irrompente Enrico VIII), Silvio Fiore e Libero Sansavini.
La regia di Josè Quaglio ha saputo rispettare e valorizzare l'attualità del messaggio e utilizzare bene il buon cast artistico.
Successo caloroso. Si replica fino al 31 luglio.

GIOVANNI LOMBARDI L'Unità, Roma, 26 Luglio 1974




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