La recensione
Il rischio del cristiano
La salita verso il colle di San Miniato ha acquistato ormai il sapore degli appuntamenti rituali. I depliant ricordano che si celebra quest'anno la XXXVI Festa del Teatro a San Miniato. Il Cardinale Giovanni Benelli, Arcivescovo di Firenze e Presidente dei Vescovi di questa Regione, in una lettera inviata al Direttore Artistico della Festa Don Marco Bongioanni, dice testualmente: «Desidero esprimere il mio vivo compiacimento per quanto fa al fine di tenere in vita codesta benemerita istituzione e il sincero incoraggiamento a continuare, anche per il futuro; questa fatica sicuramente feconda di bene. Tali rappresentazioni infatti, sempre ben curate e di alto livello culturale, possono diventare valido strumento di mediazione del messaggio cristiano proprio in quel mondo della cultura non sempre facile a lasciarsene penetrare».
La benemerita istituzione si avvale di uno stupendo scenario culturale, quale nessuno scenografo, in trentasei anni, è mai riuscito ad eguagliare. I migliori sono riusciti invece a inserire le proprie invenzioni in quelle che gli antenati hanno posto qui in singolare concentrato di bellezza a volte sorridente, altre volte austera e quasi povera. Proprio in cima al colle sta la Cattedrale, affiancata dal Palazzo Vescovile, coronata da un piccolo chiostro. Nonostante i rifacimenti e le aggiunte interne e esterne, la piazza è ancora dominata dalla presenza romanica, e così intimamente italiana, della Cattedrale.
Proprio in quella Piazza quest'anno si celebra la Festa del Teatro.
Per il sesto anno consecutivo si sceglie un autore italiano, Italo Alighiero Chiusano. Gran germanista, romanziere, poeta, biografo, critico e storico del teatro, scrittore per la radio e la televisione, Chiusano è però soprattutto e sempre un uomo che ama il teatro e un autore di teatro, anche quando scrive la storia di Goethe. Dal suo ultimo, fortunatissimo romanzo, "L'Ordalia", è nata l'idea di questo testo teatrale, prima per la radio e ora finalmente per la scena: "Il Sacrilegio". Il regista cui è stata affidata la messa in scena è Gian Filippo Belardo, il quale, essendo nostro collega di redazione, dovrà accontentarsi di pochi cenni sulla sua bravura; sia perché egli stesso non sopporterebbe altro trattamento, che non fosse quello di una valutazione rigorosamente professionale e limitata all'indispensabile, sia perché abbiamo sempre ritenuto obbligatorio farci guidare dal buon gusto, e dai limiti che esso impone, ogni qualvolta il dovere dall'informazione ci ha imposto di parlare di cose fatte da qualcuno di noi.
La storia narrata nel testo di Chiusano è vera, ed è accaduta nell'anno di grazia 997, a Farfa, in Sabina. Vi prosperava in quel periodo l'omonima abbazia benedettina, celebre per studi e spiritualità, ma decaduta da qualche anno in abominevoli vicende di corruzione e perfino di criminalità. Nell'anno 997, appunto, vi fu eletto abate Ugo da S. Quirico, il quale riuscì a restaurare la fama e soprattutto la vita dell'abbazia, e a promuoverne il periodo aureo, che va dai primi anni del secolo XI fino al secolo XII. Purtroppo però la elezione di Ugo è bacata all'origine da uno scambio simoniaco intercorso nientemeno che tra Ugo e il giovanissimo Papa Gregorio V, Brunone di Carinzia. Sia l'uno che l'altro si dimostrarono poi uomini di profonda fede e di agguerrita moralità. Gregorio condannò esplicitamente la simonia e Ugo pianse per il resto della vita quel «sacrilegio», nonostante i tentativi di giustificarlo alla luce degli effetti positivi successivi.
Questi sono i termini reali della vicenda. Su questi dati della storia Chiusano ha costruito un dramma della coscienza, che riguarda non tanto o non solo il reperto storico riesumato quasi per caso, come avviene in certi antefatti letterari, ma il presente religioso e civile della storia.
E non si tratta solo di una disquisizione sul fine che giustifica i mezzi. Non vi sarebbe stato bisogno di inventare cose nuove per questioni così antiche. Si trattava di adombrare, intanto, quale sia la nuova immagine del «fine» e dei «mezzi». E poi di allargare la discussione poetica verso tutta quella sfera della coscienza che è oggi la più travagliata e che ha fatto gridare taluni al pericolo del privato. Il testo di Chiusano scava in tutto questo con la precisione del bulino in mani esperte. Gli antichi temi delle tentazioni classiche, quali la lussuria, il possesso, il potere, fanno da contrappunto a quella che resta tuttavia la questione fondamentale: il valore della coscienza e del suo confronto con la norma da una parte e con le pretese — sacrosante — dell'esistenza dall'altra. «Mi hai detto una cosa forte e nuova — dice l'ex monaco Probato a Ugo nell'ultima scena — che bisogna rischiare, che non sappiamo nulla, che Dio è mistero e noi avventura senza sicurezza».
Noi sappiamo, di Dio e di tutti noi, ciò che è stato rivelato e ciò che la ragione ci consente di scandagliare. Ma resta il vero mistero — non rivelato, né razionalizzabile, nonostante l'ausilio di certe scienze umane. La fede e la scienza studiano e rivelano Dio e l'uomo, ma non ogni singola persona e ogni singola storia. Il mistero di Dio, la impenetrabilità dell'arbitrio e delle scelte, l'avventura dell'esistenza ci saranno forse alla fine rivelate. Ma ora che cosa ci può venir detto che non sia già scritto per tutti? E chi può dire qualcosa di definitivo se non la coscienza? Non che la coscienza possa essa stessa sostituirsi alla legge. Ma è vero però che quando Dio giudicherà uno di noi, non potrà imputarci nulla — nel bene e nel male — che non sia già da noi conosciuto come atto nostro, buono o cattivo.
Possiamo dire che questa è la lettura più affondante del dramma di Chiusano. Dramma che si svela sia sulla pagina che in scena. Rafforzato in scena, per motivi che poi vedremo. Ma esistono altri livelli di comprensione de "Il Sacrilegio". Per esempio il ricorrere di situazioni e circostanze che riguardano la società civile e quella religiosa. Per esempio la contemplazione spaventosa — e insieme generatrice di fede in Dio — del peccato della Chiesa e dei suoi uomini migliori. Per esempio la caratterizzazione di quegli ardenti di cuore che — come i figli del tuono — sono destinati a pencolare da un estremo all'altro, alla ricerca di una totalità di abbraccio che noi siamo soliti chiamare integrismo, e che si mescola all'utopia. Resta vero tuttavia che la partita non si gioca sulle fragilità dei figli di Dio, ma sulle loro scelte radicali, perché sono proprio le radici a determinare la qualità della pianta.
Chiusano è uno dei pochi intellettuali italiani che non fanno mistero della propria fede cristiana, ma che non ne fanno nemmeno moneta. E perciò, con la libertà propria degli spiriti maturi e dele intelligenze coraggiose, egli si muove in una materia che, essendo impregnata dei problemi, dei chiaroscuri facenti parte del mistero dell'incarnazione, lo riguarda personalmente. Chiusano infatti non prende le distanze, ma anzi coinvolge se stesso insieme ai destinatati in quella sua discussione in poesia diretta alle radici. E si permette di suscitare lo scandalo della messa in questione di certe sicurezze. Scandalo non suo, beninteso, ma evangelico. Il fine giustifica i mezzi, che è il primo e forse più banale aforisma che viene in mente di fronte al testo de "Il Sacrilegio", Chiusano non lo prende da Machiavelli, ma dal Vangelo, là dove si dice che è necessario che gli scandali avvengano, ma guai a coloro per i quali gli scandali avvengono. E così la sicurezza machiavellica diviene dubbio esistenziale, esigenza di verifica nella fede. E ancora: il tema del rischio fino alle estreme conseguenze non è una qualsiasi rilettura di Bernanos, di Bresson o di Green, ma la meditazione sulla conturbante lezione di Cristo: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc. 9,25). Oppure su quella ancora più sconvolgente di Paolo ai Romani: «Vorrei essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli» (Rom. 9, 3). Ecco allora che il tema del rischio estremo si fa tema esplicitamente cristiano; ecco che acquistano nuovo significato le parole di Chiusano, quando dice che nessun'altra religione al mondo è in grado di offrire quelle due dimensioni che sono invece proprie del Cristianesimo: il Mistero dell'Incarnazione e la visione finalistica della storia.
Ma ciò che fa de "Il Sacrilegio" un testo folgorante e nuovo (e non una predica, naturalmente) e il rigore della parola, l'efficacia di un dialogo che nulla esibisce, sacrificando ogni ornamento effettistico alla ricerca continua dell'essenziale e dell'ulteriore. Non credo sia possibile trovare una mezza battuta inutile o pleonastica o non strettamente funzionale all'azione drammatica.
Bisogna leggere questo testo di Chiusano con onestà interiore e senza impazienze, poiché i suoi ritmi di lettura sono stati scanditi già dai ritmi creativi e non ammettono frettolosità di approccio e tanto meno di risposta, pena la superficialità. Quasi non bastasse il rigore di Chiusano, è intervenuta anche la regia di Belardo ad asciugare ulteriormente la già scarna parola. Belardo ha avuto, come regista, un merito decisivo: quello di aver lavorato con l'umiltà dell'intelligenza. Anziché farsi prendere dalla tentazione di emergere, come è normale in un regista ancor giovane, che si cimenta nella sua prima grande prova a un livello così qualificato, Belardo ha quasi cercato di scomparire e ha realizzato la regia come servizio fedele e discreto della parola. Perché questo è il punto dello spettacolo andato in scena a San Miniato: il trionfo scarno e forte della parola. Credo che difficilmente si potrebbe pensare a testimonianza più cristiana di questa nel fare teatro, luogo privilegiato della parola, eppure anche luogo della sua profanazione o sopraffazione.
La regia di Belardo ha dunque «servito», ma anche inventato modi e soluzioni, che hanno però avuto un unico risultato evidente: quello di dare risalto al testo, di renderlo ancor più cristallino e rigoroso, di farne apprezzare fino in fondo i valori di interiorità e di poesia. Alcuni momenti, specialmente quelli con le voci registrate fuori campo e in particolare la scena finale, sono veri e propri colpi d'ala indimenticabili.
Resterebbe da dire bravi agli attori. Rischiamo di apparire laudatori di circostanza e invece gli interpreti de "Il Sacrilegio" meriterebbero una menzionale singola, uno per uno: dal protagonista Carlo Simoni, agli altri grandi, mescolati in parti non tutte importantissime, eppure essenziali come angoli di affresco: Vittorio Sanipoli, Giorgio Favretto, Serena Michelotti (che è anche aiuto regista), Mita Medici, Gianfranco Ombuen, Marina Lando, Claudio Dani, Giorgio Naddi, Gioietta Gentile, Sergio Bruni. Efficacissimi sono la scena e i costumi di Salvatore Venditeli e le musiche di Peppino Gagliardi.
La XXXVI Festa del Teatro a San Miniato si è appena aperta e già sta per chiudersi. E' un peccato che essa duri così poco. Ma soprattutto è un peccato che essa sia così poco apprezzata da molti che ne dovrebbero sentire il valore, il significato e la necessità.
Alla prima erano presenti il Cardinale Benelli, con alcuni altri Vescovi, il Ministro Bodrato e altre personalità della vita politica e culturale italiana.
Ci auguriamo che questi segni di interesse e queste presenze siano di incoraggiamento agli organizzatori di San Miniato e siano anche la rappresentanza di una solidarietà fattiva che si estenda in tutta la comunità nazionale; in quella cristiana innanzitutto, ma non solo in quella. Che non si debba rimpiangere un giorno di aver avuto uno strumento così importante tra le mani e di non averlo saputo riconoscere. Questi pensieri ci venivano in mente la sera della presentazione alla stampa, quando il Presidente della Festa, Silvano Vallini e il Direttore Artistico Marco Bongioanni, ci comunicavano i loro problemi, ma anche i loro propositi e il loro entusiasmo.
Claudio Sorgi L'Osservatore Romano, Roma, 18 Luglio 1982
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