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La recensione di Giorgio Prosperi
 

Un dramma al calor freddo
Per rappresentare Il Primogenito di Christopher Fry, l'infaticabile don Ruggini, factotum dell'Istituto del Dramma Popolare, ha fatto spianare una collinetta e costruire un teatro all'aperto che avesse per sfondo il cielo e nessuna casa all'intorno. Infatti Il Primogenito si svolge in Egitto ed ha per orizzonte paesistico il deserto, e per orizzonte metafisico il cielo.
In Italia Christopher Fry è conosciuto soprattutto per il più fortunato dei suoi drammi La signora non è da bruciare e per la sceneggiatura di Barabba. Ideologicamente Fry è uno di quegli intellettuali inglesi che fanno del cattolicesimo una professione di non conformismo e di amore dell'universale; il cattolicesimo romano degli anglosassoni implica anche un indiretto interesse per l'arte italiana che in Eliot assume la forma alta dell'ordine dantesco, come punto fermo, termine fisso d'eterno consiglio nella dissociazione culturale europea, e in Fry, suo minore fratello, si esercita nell'amore della forma. Letterato più che poeta, ricercatore di eleganti sintesi verbali, più che creatore di sintesi reali, Fry costruisce i suoi drammi come una scacchiera nella quale i personaggi si muovono secondo le necessità di uno schema dialettico. La loro autonomia è scarsa e prudentemente tenuta a freno, che altrimenti minaccerebbe seriamente la limpidezza della tesi.
Meno limpido che nella struttura Fry è nell'articolazione delle immagini e della battuta. La sua religiosità, tutta di testa, si compiace di paradossi e di accostamenti audaci, nel gusto di una poetica antinaturalistica, controllata da una ironia concettuale che smorza l'afflato religioso e lo fissa in forme preziose e distaccate.
Il Primogenito è la storia di Mosè prima dell'esodo. Scampato miracolosamente alla strage dei fanciulli ebrei ordinata dal Faraone, allevato come un egiziano da Anath, sorella dello stesso Faraone, Mosè apre gli occhi sulle sventure del suo popolo in cattività, rifiuta l'educazione egiziana, rinfaccia al Faraone le sue mancate promesse di libertà e di giustizia per il popolo d'Israele. Sollecitato dalle preghiere di Mosè, profeta sanguigno ed ispirato, tutto calato nella fatalità della sua missione, il Signore punisce l'Egitto con i biblici flagelli. E intanto Mosè prepara la grande migrazione degli ebrei, costretti a costruire piramidi, verso la riconquista della terra promessa. Nelle pieghe di questa azione si delineano i caratteri, o per meglio dire, le posizioni dei pezzi sulla scacchiera: essi sono Mosè, capo degli esuli ebrei, suo fratello Aronne, suo  generoso e fiducioso  seguace,  sua sorella Miriam, che si identifica con le sorti dello sventurato popolo ebraico e teme, come tutti gli umili, i lussi intellettuali del suo fatale fratello. Il figlio di Miriam, Shendi, completa la casistica degli ebrei, fornendoci l'immagine di un giovane privo di fede e dominato pertanto dalla paura.
Sul fronte egizio, un'immagine della colta e logora Europa, che da secoli detiene il potere, i personaggi sono più reali: Seti, il Faraone, è una vita spesa per l'impero, con tutti gli aspri doveri che il potere stesso comporta. Anath, colei che ha salvato ed educato Mosè, comprende le due parti, senza sapersi schierare decisamente per nessuna delle due. Personaggio riuscito, il solo veramente poetico, per la sua intcriore scissione e per una astratta comprensione delle due forze opposte che si risolve in una intcriore perplessità, in una pratica incapacità di azione. Ramses, il primogenito del Faraone, si adopera, nella sua acerba generosità, per la comprensione e la fusione dei due mondi. Vuoi riparare i torti commessi dal padre, mette la carità innanzi alla politica. Arriva fino a conferire a Shendi, il figlio di Miriam, un grado di ufficiale nell'esercito egizio, perché non abbia ad essere oppresso dai dominatori e più ancora dalla propria paura. Teusret, figlia del Faraone, è la vuota gentilezza e raffinatezza di una casta al potere, così protetta dal suo passato da non accorgersi nemmeno di ciò che succede intorno a lei.
Il dramma, dopo una lenta preparazione, fatalmente precipita: siamo alla vigilia dell'esodo, gli Ebrei hanno bagnato di sangue d'agnello le porte delle loro case perché il flagello della morte, inviato da Dio, non abbia a toccarli. Shendi non vuoi saperne di stare con i suoi, si sente egiziano. Finalmente si decide a disfarsi dell'uniforme, ma non resta di lui che un povero ebreo senza fede. Viola il comandamento di uscire dalla tenda di sua madre, si perde coi predestinati alla strage. È mezzanotte; e proprio quella notte al palazzo del Faraone si aspetta la bella sposa siriana di Ramses. Il Faraone, logorato dal potere, passa lo scettro al figlio, nella speranza di una tregua per l'esausto sangue egiziano. Ma è una decisione tardiva e dettata dal timore. Il ragazzo è toccato dalla fatale visitatrice, che mena strage dei primogeniti. Mosè, primogenito anche lui, salvato da un'egizia, ha dimenticato di avvertire Ramses. Ed ora accorre, impotente a fermare il flagello che egli stesso ha invocato.
È chiaro che Christopher Fry vuoi mettersi al difuori di ogni letteratura apologetica, e umanizzare la figura di Mosè rimuovendola dalla sua statura mitica. La vittoria è triste per il vincitore, Iddio non è privilegio degli ebrei ma
di tutte le creature, la sofferenza che a volte si accanisce sui migliori, è un segno arcano della provvidenza, forse una predilezione affinchè il male sia più scoperto e visibile, e gli uomini cessino dal procurarsi dolore. Lungi dall'iniziarsi in una atmosfera epica, l'esodo ha inizio in un ripiegamento meditativo. «Ognuno di noi — conclude l'ardente Mosè — deve trovare il suo singolo significato nella persuasione dei nostri giorni, fino al momento che ci incontreremo col significato del mondo».
Il che vuoi dire che finché l'uomo sarà legato al tempo non può sperare che nella salvezza individuale, secondo le leggi della coscienza. Solo al di là del tempo la molteplicità dei significati, cioè delle fedi e delle esperienze, si fonderà nell'unità dell'amor che muove il sole e l'altre stelle.
È un dramma, dicevamo, al calore freddo, di testa, in cui i versi hanno la lucentezza del diamante. Ciò che purtroppo si perde nella traduzione, anche se si tratta di un traduttore esperto e valente come Cesare Vico Lodovici. Ciò che non si perde è il tono, che difficilmente comporta accesi sfoghi recitativi; che anzi comporta una recitazione composta, oggi si direbbe estraniata, per non dire compassata. La parola qui è suono e splendore d'immagini fisse, più che azione. La sofisticazione della materia, una certa aria di pastiche tra l'antico e il moderno, fa addirittura correre la fantasia verso forme anche figurative di pastiche, senza mai perder d'occhio la natura critica e letteraria, più che drammatica, del dialogo di Fry.
Ma uno spettacolo è un fatto concreto, e un regista deve pur fare i conti con quello che ha a disposizione: il teatro all'aperto ha esigenze sue proprie; per di più l'atmosfera di San Miniato non si presta a giuochi formali: è certo, tenendo conto di ciò, che Orazio Costa Giovangigli ha sciolto il dramma di Fry dai suoi vincoli formali e lo ha ricreato nella forma di un vasto dramma popolare, incorniciato da un coro di ebrei che piangono la loro miseria con le parole dei profeti; messo lo spettacolo su questo piano, la recitazione ovviamente si scalda, le riserve ironiche evaporano, tutto diventa vero, urgente; e la verità, come sovente accade in teatro, scopre qualche inverosimiglianza.
Lo spettacolo risulta grave, solenne, veramente biblico, disposto su un ampio fronte scenico come lo schermo del tecnirama. Le musiche suggestive di Roman Vlad in più punti sottolineano la battuta. Un incontro ad alto livello fra le due élites ebrea ed egizia si trasforma nel vasto affresco di una sacra rappresentazione. E in questa chiave chi conosce Orazio Costa può immaginare con quale impegno e quale rigore egli ha ricreato la rappresentazione, fino a inventare una vera partitura dei cori.
Tra gli interpreti spicca Evi Maltagliati nella parte di Anath, sostenuta con stile ed aristocratico distacco; Luigi Vannucchi era un Mosè giovanilmente acceso, Fosco Giachetti un Faraone controllato e triste sotto il peso del potere. Roberto Herlitska un Ramses dalla dolcezza persino troppo accentuata, Nicoletta Languasco una graziosa Teusret, figlia del Faraone, Anna Miserocchi una drammatica Miriam, Paolo Giuranna un agitato e nevrotico Shendi, Quinto Foschi un simpatico Aronne.
Dei costumi di Giovanni Migliori, i migliori erano quelli della Maltagliati. A volte lo scrupolo della fedeltà ai modelli pittorici andava un tantino a detrimento della verità teatrale dei personaggi.
Il lavoro è stato accolto con rispettosa ammirazione e calorosamente e ripetutamente applaudito.
Giorgio Prosperi, Il Tempo, Roma, 4 Agosto 1963




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