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La recensione di Renzo Tian
 

Sfuma nella nebbia il grande amore
Eloisa e Abelardo in teatro (ci ha pensato Franco Enriquez, qui per l'annuale festa dell'Istituto del Dramma Popolare), ovvero la trappola delel luci eroiche, dal roman zamento in agguato, della aggettivazione sublime, basta poco, e la storia del maestro di logica e teologia e della sua già letteratìssima allieva nel XII secolo, si può trasformare in una neogotica e neoromantica storia di amore, dolore e morte, facendo scivolare la badessa del paracielo giù fino alla monaca di Monza. Basta, nel carteggio intercorso tra i due amanti separati, concentrare le luci sull'aneddoto, sulla « vicenda »; mentre, se si vuole veramente rappresentarli in una luce di verità, bisognerebbe anzitutto rappresentare e condensare il retroterra ideologico, spirituale e culturale dal quale scaturiscono, e al quale rimangono avvinti. Per un curioso paradosso (ce lo ha mostrato in un incomparabile saggio Etienne Gilson) è proprio penetrando in quel retroterra, per noi così difficile da concepire oggi, che ì due personaggi appaiono immersi in una luce di stupefacente imprevedibile modernità.
Se ci liberiamo dalle facili incrostazioni romantiche, che confluiscono nella leggenda che vuole che Abelardo abbia aperto le sue braccia, nella tomba, nel momento in cui Eloisa ve lo raggiunse molti anni più tardi, ci accorgeremmo innanzitutto di una caratteristica molto curiosa: quella di Abelardo ed Eloisa è la storia di un rapporto fra due menti vigili e lucide, una storia dove il color bianco della passione viene sempre a inserirsi in complesse geometrie intellettuali. Nozioni come la condizione chiericale, il prestigio dell'insegnamento, la definizione della condizione monadica, difficili per la nostra mentalità di moderni, sono indispensabili per entrare fino in fondo in questa storia dove il furore sensuale è solo una scintilla che accende ben altri trasporti. Il gioco tra Abelardo ed Eloisa è fatto di slanci dei sensi e di diplomazie dell'anima: portandolo in ima illumuiazione teatrale dovrebbe rivelarci un sottolissimo e sfumato gioco dei sentimenti. Ogni gesto individuale ha riflessi pubblici, e la lotta fra le due sfere è quella che caratterizza i: due personaggi, in un oscillare di accettazioni e rinunzie. Qui, in questo retroterra è la spiegazione degli « eventi » più clamorosi e romanzabili della vicenda, come l'esplosione dei sensi, il matrimonio segreto, la mulilazione dolorosa di Abelardo, la diversa monacazione di entrambi. Non molto di tutto questo è dato ritrovare nello spettacolo scritto e diretto da Franco Enriquez, che per portare in scena i due personaggi, ha seguito un metodo che somigli alquanto, per dir così,  alla ricetta di uno  spezzatino.
Ciò riguarda non soltanto i materiali testuali, che vengono usati a tocchetti, brani di lettere di Adalberto e frammenti di quelle di Eloisa, un po' di testimonianze contemporanee e un po' di « Historia Calamitatum », un po' di frasi d'amore e qualche brandello di controversia teologica, un po' di speakeraggio informativo e radi racconti storici; ma anche per quanto riguarda il condimento, cioè lo stile scenico, che va dalla declamazione appassionata e sofferente (probabilmente il contrario di quel che deve essere il tono interiore dei due sorvegliati corrispondenti) alla creazione di atmosfere chiesastiche con musiche, liturgiche e processioni, dalla comparsa ad effetto di grandi pupazzi surreali alla « Bread and Puppet » agli interventi di mimi e maschere che creano macchie di movimento o di colore là dove si sarebbe preferito vedere il tracciato in bianco e nero, e magari in posizione di immobilità, il profilo dei due amanti-antagonisti. La confusione è grande e rischia, nonostante che i testi siano citati abbastanza fedelmente (ma con strabocchevole copiosità) che la storia sia risospinta proprio verso quel versante di eroismo romanzato e melodrammato dove rimane in ombra il grande concertato delle due anime che si cercano, si schivano, sostituiscono le proprie ragioni a quelle dell'altro, approdano alla sanità oppure la rifiutano, e così facendo si realizzano e si definiscono da ogni lato.
C'è da domandarsi quanto possa orientarsi lo spettatore che non conosca nel dettaglio la vicenda e il suo sfondo, di fronte a questi dialoghi fra una malmonacata e un cattedratico, in mezzo ai quali vengono a infilarsi alla rinfusa le formule dell'« Intelligo ut Credam », gli squilli del Dies Irae, le dispute dei concili, il fervore mimico degli scolari, i languori monastici, le arcigne requisitorie dei mastini dell'ortodossia. Certo è impossibile che percepisca la molla segreta di una vicenda dove voluttà e penitenza, narcisismo e dedizione, santità e abiezione si mescolano in un viluppo delicato e finiscono per trasformare il gioco delle parti nel dramma di una elevazione che non è più soltanto religiosa, ma umana nel senso più profondo della parola. All'interno dello spettacolo rimane in un primo piano, com'è giusto, la figura dell'Eloisa di Valeria Monconi, tenuta su un registro di trepida sottomissione emotiva piuttosto che di lucidità intellettuale; le vien dietro Nando Gazzolo molto corretto ma non sufficientemente ambiguo e mutante come ci appare l'Abelardo della « Historia ». Nel contorno, disegnato con linee puramente illustrative, ci sono Carlo Histermann, Giampiero Becherelli, Giuliano Melchiori. Ma dopo le tre ore di spettacolo nella chiesa di San Francesco si  rimane sulla domanda: chi è Eloisa? chi è Abelardo?
Renzo Tian Il Messaggero, Roma, 27 Agosto 1978




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