In scena a San Miniato "Il custode dell'acqua" riuscita pièce di Scaglia tra cruenti intrighi e ideali di conciliazione tra cristianesimo, islam ed ebraismo in conflitto
Gerusalemme a teatro tra sangue e speranza
Una straordinaria generazione di cristiani, di comuni uomini cristiani, carnali e peccatori come tutti, ma sempre in lotta, mai su un'altra strada (Eliot) ha dato vita e continuità a quel piccolo miracolo che è la Festa del Teatro a San Miniato, la più longeva d'Italia (siamo all'edizione numero 59), la più commovente per l'energia con la quale vengono commissionati spettacoli inediti, molto spesso su testi inediti alla scena, se non addirittura scritti appositamente. Il recensore che assiste a questi spettacoli dovrebbe sempre tener presente questo contesto, inserendo le sue sacrosante considerazioni critiche in un clima di stima per un bene prezioso non solo del teatro, ma della civiltà italiana, che va conservato, sostenuto e fatto conoscere. Altrimenti il mestiere del critico si ridurrebbe a una mera ratifica di gusti acquisiti - più dai media e dalla moda che dalla riflessione personale. Quest'anno San Miniato ci presenta, con la giusta cautela, elementi di novità molto interessanti. Dopo anni nei quali si è registrata un'oscillazione tra sacra rappresentazione e dramma didattico (nelle loro diverse declinazioni), ora con Il custode dell'acqua, tratto dal romanzo di Franco Scaglia, è di scena l'intrigo religioso, l'avventura che da mistica diventa politica, talora gialla, se non giallo-nera. Come nel più famoso romanzo di Eco, come nel ciclo di Indiana Jones, ma con un accento molto più forte sulla centralità dell'elemento religioso nella comprensione stessa dei fatti storici. Siamo a Gerusalemme. Padre Matteo, francescano della Custodia di Terra Santa ed eminente archeologo, riceve dal suo superiore l'ordine di lasciare gli scavi per dedicarsi a un compito più urgente: la mediazione fra le tre diverse religioni (cristianesimo, islam, ebraismo) per fare di Gerusalemme la "città della pace". Un sogno, la cui realizzazione porterà padre Matteo al centro di un intrigo che investe servizi segreti, faccendieri musulmani e giovani animati da commoventi utopie alla ricerca di un misterioso documento che sembra contenga la mappa per il ritrovamento dell'Arca dell'Alleanza. Molte morti insanguinano la vicenda, ma il finale ci mostra il volto buono della storia: la rivelazione del vero contenuto di quel documento è come uno sguardo gettato, in un giorno di tempesta, su quel punto dell'orizzonte in cui ricomincia il sereno: lontano, ma certo. Dove Scaglia dimostra di possedere quel vivo senso della speranza che non nega le brutture della storia, ma che proietta l'uomo dentro quelle brutture con un altro cuore. La regia di Maurizio Panici - su un testo elaborato con buona fedeltà al romanzo da S. Pierattini e M.G. Lea Pacella - appare un po' troppo urlata: forse l'inesorabilità delle parole avrebbe concesso un'espressività più sobria. Gli attori sono bravi tutti, con una nota di merito a Carlo Simoni e Sergio Basile. Protagonista assoluto è Maurizio Donadoni, attore dai mezzi enormi, qui autore di un'interpretazione che, pur ancora bisognosa di rodaggio, si segnala per la perfetta individuazione del carattere di padre Matteo, semplice e ingenuo come un francescano, irsuto come un archeologo.
Luca Doninelli, Avvenire, 24 luglio 2005
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