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La recensione di Gerardo Guerrieri
 

La recensione

 

Ha due padri il teatro della crudeltà

Chi era Barabba? Sapere che Bar Abba vuoi dire figlio del padre ci lascia allo stesso punto. A meno che non abbia ragione chi vuole che Bar Abba (questione di R in più) voglia dire figlio di rabbino. E con ciò? Scusate, è la differenza che passa fra un ladrone bastardo e il figlio di un intellettuale, contestatore, capo di una rivolta contro il sistema romano. Ma c'è perfino chi, come Loisy, che sostiene che Barabba non sia mai esistito, sia un errore di traduzione.
Michel De Ghelderode (belga e uno dei grandi drammaturghi del '900, 1898-1962) non si occupa di questo, e ci presenta Barabba in galera come un brigante felice di esserlo; esibizionista come Mersault dello Straniero di Camus, spera che tanta gente venga a vedere la sua esecuzione; come De Quincey tesse l'elogio dell'assassinio come una delle belle arti («si uccide per genialità»); come Mackie Messer canta canzoni sul delitto; ama il vino, non, pare, le donne.
Ghelderode non ha avuto molta fortuna in Italia, e devo avvertire che per me Barabba non è tra i suoi capolavori. Che esistono: per esempio, «La scuola dei buffoni», e concordo con Lionel Abel, è un capolavoro assoluto. L'unica ragione perché, non lo si vede di più è che ci vogliono tredici attori tutti maschi e preferibilmente tutti nani, ma a parte il nano, spero che un giorno Gassman lo reciti. Altro "die Kean".
Non tutto in questo Barabba (versione di Pier Benedetto Bertoli) è puro Ghelderode. Come in certi quadri dove si nota accanto alla mano del maestro quella di un aiuto o della bottega: come un Botticelli cui ha collaborato il Botticini.
Cos'è Ghelderode? È, alla spiccia, l'apostolo Pietro che si porta sotto il braccio il gallo che ha appena ammazzato (per favore non quell'uccello impagliato da Museo Pigorini); invenzione così vera: ho paura che il Ghelderode l'abbia rubata alla pittura del suo paese.
C'è la grande scena fra Caifa, Erode e Pilato (recitata in modo eccellente da Vittorio Sanipoli, Carlo Hintermann, Felice Leveratto). E chi tranne Bulgakov si è aggirato con tale disinvoltura fra questi personaggi? (Taglierei soltanto quegli inutili accenni al puzzo degli ebrei, col quale Ghelderode si è fatta un'inutile fama di antisemita). Molto del resto è connettivo, didascalia; taglierei, figuratevi, alcune scene della prigione.
Il testo di Barabba segue alti e bassi di una ispirazione poetica che quando c'è è folgorante. Ma la sua verità è crudele.
Nessuno lo sa, ma Ghelderode ha inventato il teatro della crudeltà insieme a Artaud: il brevetto è anche suo. Ma non lo sapeva e quando lesse Artaud rimase stupito di avere così puntualmente applicato le sue regole. Perfino la frase, che tutti tranne Grotovsky dimenticano, «la crudeltà vuoi dire crudeltà verso se stessi», è di Ghelderode prima che di Artaud. Qui il personaggio crudele verso se stesso, è Giuda. In Giuda Ghelderode ha riversato le sue più tormentose intuizioni.
Giuda, morbosamente attirato a rivedere in prigione Cristo che ha appena tradito. Lo avvicina, tenta di riannodare il discorso. E fra i momenti più grandi dello spettacolo sono i silenzi che Cristo oppone ai suoi: Maestro! Maestro! (Cristo non parla mai: è l'ecce homo virgolato di sangue delle flagellazioni fiamminghe ).
Giuda che è il solo a gridare: Gesù! quando Pilato domanda alla folla chi dei due liberare. Giuda (Marcello Bertini) che non vede l'ora che la crocefissione finisca e che Cristo muoia. Il terzo atto è regolato sull'orologio frenetico di Giuda. Siccome l'insopportabilità di vivere e assistere all'agonia di Cristo, un'ansia di affrettare la fine, un losco desiderio che la realtà di Cristo finisca una buona volta e venga il tempo in cui il Cristo appartenga al passato, e si possa tranquillamente attendere, non tanto l'Avvento, quanto il Nirvana.
Il tema della predestinazione di Giuda torna stranamente a galla in questi ultimi tempi. L'anno scorso, qui a S. Miniato, pervadeva il finissimo "Quinto Evangelio" di Marco Pomilio. Ma mi accorgo che anche per Roger Caillois (1961) Giuda è lo strumento predestinato della redenzione di Cristo: egli arriva a dire che Cristo ha corso il rischio non tanto di essere crocefisso, ma di essere assolto. E in questa logica anche Barabba è uno strumento della redenzione: e se il popolo avesse scelto di liberare Gesù?
Ma Barabba è un'altra cosa, sta fra Maciste e Rimbaud: combinazione impossibile, e posso capire che Antonio Salines abbia trovato nel personaggio una certa irriducibilità, che mi pare però abbia finora, con eleganza, sorvolato.
Un punto da meditare è che Barabba (come altri personaggi di Ghelderode, da Lazzaro alla figlia di Giairo) è un resuscitato. È uno che è stato per morire: come Soljenitzin, si considera morto: ha un laste of death. Da quando, con suo sommo stupore, il popolo lo libera, egli diventa un altro uomo. Come sarebbe più bello se lo conoscessimo da quel momento. Da quando cioè lo scaraventano in scena, per presentarlo al balcone. La scena in cui Caifa lo difende davanti al popolo ricorda le manfrine che faceva Starace al balcone. E la concezione che Ghelderode ha del popolo è la stessa: è lo stesso popolo che applaudì a piazza Venezia come a piazza Loreto. José Quaglio è stato attratto nella regia, e ho sentito il pubblico apprezzare favorevolmente, dall'attualità del messaggio anarchico. Barabba diventa capo della rivolta (Ghelderode diceva di sé: sono un anarchico aristocratico): compaiono striscioni, Barabba arringa la folla al microfono.
Dal momento in cui lo liberano, è un uomo cambiato: è come uno svegliato da un sonno. Gli è entrato il veleno della coscienza. Da brigante da strada che era, ha capito quel che c'è da cambiare e distruggere. Ma appena l'ha capito l'ammazzano. Bella la concezione del terzo atto: la crocefissione vista dal basso, a livello di un baraccone da fiera: spettacolo contro spettacolo. E tutto il pubblico ha, o dovrebbe avere, la sensazione di essere in un pozzo da cui non uscirà mai. Barabba dunque insulta i pagliacci. Barabba sfascia il loro baraccone. E dopo che ha proclamato la rivolta, il pagliaccio che egli ha umiliato, per vendetta ammazza lui. Così Barabba salvato, inopinatamente, muore lo stesso giorno di Cristo. «Ma tu sei morto per qualche cosa, io per niente». Ma questo non vuoi dire che a questo punto debba comparire dietro al cadavere di Barabba una croce proiettata sulle piramidi. Io sono del parere di chi pensa che Barabba moribondo interroga un ciclo muto, che la sua Passione è senza Redenzione, che è la rivolta uccisa dalla stupidaggine. E non c'è niente da fare, Ghelderode è l'uomo dell'ostia velenata dei suoi Fasti Infernali. La battuta finale, Barabba l'ha detta, nel primo atto, e ce ne siamo dimenticati: «Non siamo riusciti a cambiare niente. La menzogna continuerà a regnare sul mondo prima come dopo di noi». Questa è la crudeltà di Ghelderode. E c'è un'altra battuta, sempre nel primo atto, che dice: «Un momento fa eravamo bambini, ora ci ammazzano». (Beckett ci ha costruito sopra più di un dramma).
Scena trascendentale di Uberto Bertacca: cubi, cuspidi, piramidi, di un color metallo cangiante, la cui latta ammaccata, si muta, sotto le luci, in catene di montagne.

GERARDO GUERRIERI Giorno, Milano, 31 Luglio 1976




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