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Stampa diocesana novarese - La recensione di Fornara
 

Nessun innocente potrà immolarsi per redimere questa umanità?
Giovedì 14 luglio, a San Miniato al Tedesco, si è rinnovato, per la 48° volta, il «miracolo» teatrale, proposto dall'Istituto del Dramma Popolare sulla piazza del Duomo.
Opera scelta, per questa 48° uscita, Il Cristo proibito di Curzio Malaparte.

UN MALEDETTO TOSCANO
Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Suckert) nacque a Prato il 9 giugno 1898. Volontario e decorato nella prima Guerra Mondiale, aderì al Fascismo. Fu scrittore e giornalista, dal gusto raffinato, ma decadente. Trasferitosi a Parigi, diventa critico verso il Fascismo, e ne ha in cambio l'arresto e la condanna a cinque anni di confino, al suo ritorno in Patria. Negli ultimi anni di guerra, pubblica «Kaputt», scritto durante il suo lavoro di giornalista al seguito dell'esercito tedesco in Ucraina, Polonia, e Finlandia. Dopo la guerra, Malaparte pubblica il suo secondo (e definitivo) «scandalo», «La pelle», e poi alcuni «pamphlets», fino a «Maledetti toscani». Muore a Roma, il 19 luglio 1957, dopo aver detto a padre Virgilio Rotondi: «Faccia presto, mi confessi e mi dia Gesù».
Questo «maledetto toscano» (che però la sua vita la spese quasi tutta fuori dalla sua terra, specie a Capri), nel 1951 aveva anche realizzato, prima come racconto, poi come sceneggiatura per un film, questo Cristo proibito, che nel 1992 (40 anni dopo!) Luigi Martellini ha pubblicato per le Edizioni Esi di Napoli, e che quest'anno l'Istituto di San Miniato ci ha voluto presentare in anteprima.

LA TRAMA
Siamo nel 1950, alla fine della guerra, in un paese toscano, popolato da gente povera e semplice, che da secoli vive in lotta con l'avara natura, con i flagelli delle guerre, delle carestie, dell'odio civile e della violenza. Gente taciturna, che nutre passioni violente ma chiuse. Il paesaggio è disseminato di croci: la guerra e la lotta partigiana hanno scatenato un massacro. Ogni tanto qualcuno, già pianto per morto, riappare in paese. Un bel giorno riappaiono anche Bruno ed Andrea, dopo dieci anni di fronte russo e di prigionia presso i sovietici. Camminano curvi sotto il peso di un sacco da montagna. Sono due contadini dalle mani rozze e dure, dalle spalle larghe ed ossute. Andrea si muove con una certa vivacità impaziente. Bruno con lentezza, quasi con gravità. Il viso di Bruno è impassibile: solo il socchiudere lento degli occhi rivela ogni tanto il mutar dei pensieri.
La notizia del loro ritorno si sparge in un baleno. Andrea incontra la moglie e si dilegua nella gioia del ritorno; Bruno, il volto impassibile e gli occhi socchiusi, stringe distrattamente le mani, che gli si offrono, muto. Anche quando riabbraccia la vecchia madre ed il padre paralitico, non perde la cupa durezza del volto. Incute paura. «Quando abbiamo sentito gridare che eri tornato, abbiamo avuto paura», gli dice la madre. Paura di che cosa? Lo sanno tutti, anche se non ne parlano: che voglia vendicare la morte del fratello diciassettenne, denunziato come partigiano da un coetaneo, e fucilato dai nazisti. «Devi dimenticare - gli dice il padre - Come tutti gli altri. Nessuno vuol più saperne di lotte, di sangue, di vendette. Tutti vogliono lavorare in pace, dimenticare quel che hanno sofferto, quel che hanno fatto soffrire. Tuo fratello è morto. Lascialo dormir tranquillo. Anche lui non vuol più saperne di sangue e di lagrime. Ed ora vattene».
Ma Bruno, il cui obiettivo è sapere il nome del traditore del fratello, per fare giustizia, si aggira per il paese, scrutando i volti ed interrogando. Nessuna risposta, da nessuna parte. Alla sua esigenza di giustizia si contrappone l'esigenza dell'oblio.
Il dramma raggiunge il culmine nell'incontro di Bruno con padre Antonio. E' il falegname del paese, chiamato dalla gente «il Santo», rispettato ed amato, non solo per la virtù della sua vita, la bontà, lo spirito di sacrificio e la povertà esemplare, ma anche per il coraggio dimostrato durante la lotta partigiana. Padre Antonio ha intuito l'oscuro proposito di Bruno; per distoglierlo fa di tutto, ma inutilmente. Allora, per evitare che si metta in moto la spirale della vendetta, si autoaccusa del tradimento. Bruno afferra una lima e si scaglia contro padre Antonio. Questi, colpito al petto mortalmente, prima di morire rivela a Bruno il tranello che gli ha teso: «Un giorno, tu saprai chi è stato... Ma non potrai più fargli del male... Bruno... io ho pagato anche per lui...». Così sarà. La sua immolazione dissiperà la paura ed il desiderio di vendetta.

 

AMBIGUITÀ, MA NON TROPPO
Diciamo subito che la rappresentazione sanminiatese ci ha totalmente convinti, anche se al termine del primo atto ritenevamo di essere incappati, sia in un testo oltremodo ostico, sia in una recitazione discutibile. E questo anche perchè, alla presentazione pomeridiana, il regista Massimo Luconi aveva ritenuto di calcare la mano sulla «mancanza di una morale oggettiva, sia laica che religiosa» in quest'opera.
Che, invece, a nostro avviso (ma abbiamo poi appurato che padre Ferdinando Castelli s.j., recensendo il volume in «La Civiltà Cattolica», q. 3423, 1993, I, pagg. 220-232, da cui abbiano tratto la sintesi della trama, ci aveva magistralmente preceduti), presenta una serie di grossi interrogativi, che, se da un lato sembrano di forte ambiguità, da un altro lato portano dritto dritto alla figura «storica» di Cristo, e, soprattutto, al Suo messaggio, che è prima di tutto un messaggio di moralità: "Il secondo (comando) è ugualmente importante: «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Mt. 22,39)".
Malaparte, dunque, ne Il Cristo, proibito, sembra presentarci questi assiomi:
1) la morte del malvagio non serve a redimere la società: occorre la morte dell'innocente;
2) tuttavia, anche se questo è già storicamente avvenuto con la morte in croce di Cristo, morte che ogni giorno si ripete nella Celebrazione Eucaristica, non è possibile ripetere il Suo sacrificio in maniera esaustiva e liberatoria (ecco dunque che il Cristo diventa  «proibito»);
3) d'altronde, non sarà la vendetta a ridonare né giustizia né pace, ma soltanto il perdono autentico e definitivo;
4) neppure il tentativo di «dimenticare» (e tutti i personaggi del dramma cercano appunto di rifarsi una vita, «dimenticando» o fingendo di dimenticare) può portare ad una soluzione: giorno verrà che la verità venga a galla, magari inopinatamente, come nel drammatico finale malapartiano;
5) credere, infine, che la liberazione, la redenzione, la ripulitura di una società possa avvenire solo con la morte di un colpevole (forse Malaparte pensava al biblico capro, che veniva ogni anno abbandonato nel deserto, per salvare il popolo dall'ira di Dio, come scritto in Lv 16,21) è pensiero suggestivo, ma che lascia del tutto irrisolta la grande questione dell'espiazione.

UN CRISTIANESIMO INTUITO
E tuttavia, in Il Cristo proibito Malaparte ci dona una serie di risposte, che toccano direttamente la sfera del Cristianesimo, anche se ancora solo intuito,
piuttosto che accettato e vissuto.
Ci dice infatti che la vera giustizia non sta nella vendetta, ma nel sacrificarsi per gli altri, cioè nel mettere in pratica pari pari il «comando dell'amore», predicato e poi esemplificato da Cristo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici!» (Gv. 15,13).
Ancora, là dove Malaparte parla di un Cristo «proibito», di fatto ci presenta una via del tutto cristiana: che, cioè, gli uomini abbiano a cotinuare solidalmente nella strada salvifica da Lui aperta ed indicata.
Cristo, però, ha parlato di amore, una parola quasi sconosciuta a quest'opera malapartiana. E tuttavia non è difficile vedere nell'amore di Nella (la Maddalena del «Cristo») per Bruno la grande apertura verso l'amore, quell'amore che, alla fine, dopo il sacrificio di padre Antonio, ricomporrà la gente dispersa e le darà nuova voglia di vivere e di camminare.

LA REALIZZAZIONE SCENICA
Quest'opera così complessa è stata data a San Miniato da «L'Arca Azzurra», una compagnia di giovani, che vogliono riproporre «una drammaturgia in lingua toscana, che sappia superare gli aspetti meramente folclorici e vernacolar!», troviamo scritto nel «dépliant» di presentazione. E quale miglior occasione, allora, di quella di poter dare un'opera del «maledetto toscano», in lingua (non vernacolo) toscano, ambientata in una Toscana assolata ed agra, come l'Amiata e le terre metallifere; e tutto ciò su di un palcoscenico naturalmente e totalmente toscano, com'è la piazza del Duomo di San Miniato al Tedesco?
E sono stati tutti bravi, da Claudio Bigagli, un Bruno tetro e scontroso, a Patrizia Corti, una Nella appassionata e sincera; da Massimo Salvianti, un «eremita» al limite della isteria, ad Ilaria Daddi, una Maria che pensa ed agisce in concreto.
A loro si sono uniti splendidamente Lucilla Morlacchi, madre tenera e forte al contempo, e Massimo De Francovich, un padre Antonio di una forza e di una persuasione rarissime.
Bene anche le musiche di supporto, anche se la «Salve Regina», così storpiata dal suo testo gregoriano, non l'abbiamo ben capita.
La scenografia ha risentito molto del fatto che il regista Luconi aveva fatto il suo apprendistato anche presso Luca Ronconi: infatti, quei «praticabili» a scena aperta forse potevano anche essere di meno o addirittura evitati.
Al momento in cui queste note vedranno, la luce, su San Miniato 1994 sarà già calato il sipario: infatti, le repliche erano previste fino a mercoledì 20. Fortunati toscani, che hanno potuto gustarsi quest'opera del loro «maledetto» conterraneo! Ma noi, che toscani non siamo, lo andiamo ripetendo da sedici anni: non potremo mai vedere nelle nostre terre questa o un'altra creatura del sanminiatese Istituto del Dramma Popolare?
BARTOLO FORNARA, Stampa diocesana novarese 23 luglio 1994




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