Il Nemico di Julien Green: un’occasione per guardare in faccia il Male
Qualcuno ha sintetizzato la parabola compiuta come uomo e come scrittore da Julien Green in questi termini: “Un faticoso cammino dall’ossessione del male al fascino dell’invisibile e alla scoperta di Dio”.
Padre Raimondo Sorgia ben sintetizza un ritratto di J. Green immediato e vivo, allorché ci dice: “Green ha sperimentato prima di Sartre lo sgomento di essere al mondo. Scriverà nel suo diario il 16 gennaio 1949: « Il mio più grande peccato sarà stato quello di non voler accettare la condizione umana».
Ciò che Green dunque stenta ad accettare, come del resto ogni uomo che abbia una tensione verso l’alto, verso l’Altro da sé, quale principio e sorgente del suo essere, è la condizione umana. Quello stato ereditato da Adamo, quell’ essere precipitato dalla primigenia condizione lo sgomenta: è lo sgomento di essere al mondo. Lo scorso 17 giugno, nella Sua omelia durante la concelebrazione eucaristica ad Assisi, il Santo Padre Bendetto XVI diceva appunto: “L’uomo è davvero grandezza e miseria: è grandezza perché porta in sé l’immagine di Dio ed è oggetto del suo amore; è miseria perché può fare cattivo uso della libertà che è il suo grande privilegio, finendo per mettersi contro il suo Creatore.” È “La grande notte”, come la definisce Green. È la vertigine di quell’ abisso che si pone tra gli slanci verso ciò che è buono e giusto e santo, e l’essere attratti, come bene intuisce il medesimo P. Sorgia, “nell’orbita gravitazionale delle passioni, della sensualità, o quantomeno dell’inerzia accidiosa e contenta di sé”. E conclude il medesimo: “Ecco in che modo Julien Green si esprime al riguardo nelle sue memorie: «È impossibile spiegare queste folli contraddizioni. Avrei voluto essere insieme un dio greco e un santo cattolico. È la terribile condizione umana: esistono due uomini in noi e uno vuol tagliare la gola dell’altro”.
Ma a questo primo impatto con il mondo e con la storia che Green sperimenta - l’essere vittima di un destino fatale e crudele che determina e decide tutto e per tutti - , lo stesso Green, come ogni uomo di buona volontà, non si arrende, ma accoglie il mormorio leggero e soave di quella Parola, i timidi e umili bagliori di quella Luce, che chiama e illumina il nostro cammino, ed è subito l’Esodo nuovo dalla notte, la grande notte del peccato dell’uomo, verso la luce dell’intramontabile e misericordioso giorno di Dio.
Soccorre ed esorcizza le presuntuose miserie e le orgogliose debolezze e fragilità dei nostri giorni, quanto ha osservato il Sorgia: “Dietro gli errori e le incoerenze in cui Julien Green si riconobbe con ammirevole sincerità e senza il narcisismo di un Oscar Wilde o di un André Gide, egli intravide sempre un amore infinito, costantemente pronto al perdono. Lui si affida e affida l’umanità, a questa ineffabile certezza, con parole che rivelano un’intensa emozione religiosa: « - Se io dovessi partire questa sera e mi si chiedesse che cosa mi commuove di più al mondo direi forse che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini. Tutto si perde nell’amore, e anche se è vero che noi saremo giudicati sull’amore, è anche vero e altrettanto fuor di dubbio che saremo giudicati dall’amore, il quale altro non è che Dio. La tua voce, Signore, è l’unica che riesca a calmare i battiti del cuore, all’avvicinarsi della grande notte che viene sulla terra”.
Noi crediamo che il passaggio di Dio nel cuore dell’uomo sia l’inizio della nostra conversione che si realizza accogliendo il Suo farsi uomo, il Suo abitare con noi, il Suo essere l’Emmanuele, il Dio con noi: in quello stesso momento diveniamo capaci di accogliere noi stessi e, subito dopo, l’uomo divenuto nostro fratello. Colui che non incontra Dio non può incontrare se stesso e rimane, soprattutto nel momento in cui si concretizza il suo peccato, estraneo, forestiero a se stesso. Incapace di riconoscersi e di riconoscere in tutta la sua tragica gravità il male che si fa e che fa.
È di una eloquenza unica, al proposito, la vicenda del re David invaghito di Bersabea che si conclude con l’uccisione di Uria l’Hittita, marito di lei, tramata dallo stesso re. Il re, raggiunto dal profeta Natan, mandato dal Signore a rimproverarlo, a svelargli il suo peccato, inizialmente non vi si riconosce.
Addirittura, come leggiamo nel secondo Libro di Samuele, quando il profeta terminò il suo racconto, “(…) l’ira di David si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: « Per la vita del Signore chi ha fatto questo merita la morte». Allora Natan disse a David: “Tu sei quell’uomo” (2Re 12, 5-7).
Il Santo Padre, Benedetto XVl, commentando questo brano, ha efficacemente evidenziato: “il verdetto di Dio, pronunciato da Natan su Davide, rischiara le intime fibre della coscienza, là dove non contano gli eserciti, il potere, l’opinione pubblica, ma dove si è soli con Dio solo. «Tu sei quell’uomo»: è parola che inchioda Davide alle sue responsabilità. Profondamente colpito da questa parola, il re sviluppa un pentimento sincero e si apre all’offerta della misericordia. Ecco il cammino della conversione”.
Le parole di Natan giungono al cuore dell’uomo Davide che non si difende, ma confessa: “Ho peccato contro il Signore”. Quasi un’ eco del “sono nudo” di Adamo (Gen 3,10).
E da qui che dobbiamo partire. È ripartendo da questa confessione che l’uomo si rinnova, restaura tutta la sua statura spirituale e si libera da quel groviglio di menzogne e infedeltà nel quale è sempre più intricato allorché vuole liberarsi da solo. È un farsi prendere per mano, come ha fatto David con Natan, così che possiamo ripercorrere tutta la nostra storia. Un lasciarsi aiutare a rileggere e riconoscere un ieri stracolmo della provvidenza di Dio, cosicché il nostro oggi sia pieno di speranza e non deluso, arrabbiato, stanco a causa della fatica sterile del voler essere dio.
Gli uomini da sempre fuggono il quotidiano vivere il tempo e le cose faticando e sudando perché il campo della storia possa essere seminato di bene nella profondità dei suoi solchi, seminato con semi di verità, di vita, di gratuità non appariscenti, ma umili, piccoli e scarni come un semino di senape. Un fuggire che li disperde nei mille rivoli del parlare, del dire, del dialogare non concepito, intessuto e poi partorito dall’esperienza viva delle cose, che li conduce nei labirinti dell’illusione ove non è più possibile rendersi conto che il fuggire la fatica della verità della vita è privarsi anche del gusto della vita; labirinti ove una folla sempre più numerosa di uomini e donne disappetenti, spilluzzicano qua e là, vagando tra le molte mense per vincere una sorta di disgusto verso la vita che come una maledizione, li sovrasta e li spinge a fuggire, a estraniarsi, ad annientarsi.
Ma quale tremenda illusione è questa? Eppure, basterebbe che noi ci riconoscessimo in quei gesti, in quelle scelte semplici, minime, elementari che sono la grammatica della vita vissuta, nell’ obbedienza a Colui che è Carità senza fine, fuggendo la tentazione di colui che è il nemico di Dio e dell’uomo, di colui che illude e tenta di distruggerci con le ingannevoli parole: “Diventerete come Dio” (Gen. 3,5).
È nel ritornare, se ci lasciamo prendere per mano, su quelle terre che un giorno abbiamo seminato lontano da Dio che si svela l’inganno antico. Ciò che si nascondeva infido e diabolico, impercettibile all’esperienza e perciò alla conoscenza umana, in quel seme ingannevole quanto appetitoso e gustoso alla vista, è costretto ora a manifestarsi.
Quel seme, divenuto pianta sterile, parassita in una terra a cui ha sottratto energia e vita restituendo frutti velenosi e di morte, svela ora il suo inganno.
Si legge al n. 13 della Gaudium et Spes: “Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l'uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di lui.(…) Spesso, rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l'uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutta l'armonia, sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri uomini e a tutta la creazione.(…) Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre”.
Escludendo, infatti, Dio dalla sua vita e volendo trovare in se stesso il proprio fine, l’uomo si avventura su sentieri impervi che conducono a terre di desolazione di cui è stracolma la mappa della storia del mondo e delle storie degli uomini.
La stessa storia, che è la trama del lavoro Il Nemico, scritto da Julien Green nel 1954 e che viene rappresentato quest’anno in occasione della LXI° Festa del Teatro, - “che va letta”, come scrive Ugo Ronfani, “come Green l’ha scritta: per guardare in faccia il Male” - è una di queste vicende. Qui l’uomo è sconfitto da colui che gli aveva promesso vittoria: il diavolo, satana. Qui l’uomo si rende sempre più solo, in spazi sempre più grandi che lo illudono di “benessere”. Green farà dire a uno dei suoi personaggi, impotenti prigionieri di drammi personali che li consumano, : “Il castello è abbastanza grande per ospitare dieci persone senza che si vedano mai, se preferiscono”.
Lasciamo comunque e immediatamente agli esperti ogni giudizio e valutazione al proposito! A noi non spetta. Non ne saremmo capaci.
Abbiamo voluto piuttosto porgere una riflessione sul mistero del male che, occasionata dalla lettura di questo lavoro teatrale, ci ha però subito collocati al di là dello specifico dei suoi personaggi e delle vicende che ne tessono la trama, in un al di là che sono le nostre storie, i nostri peccati, soprattutto l’esperienza delle infinite misericordie di Dio.
Un’ occasione per ripercorrere, cadenzati dalle battute che Julien Green ha posto sulle labbra dei suoi personaggi, il mistero dell’iniquità, mistero avvertito, sperimentato, quasi seminato nei solchi dei nostri giorni sulla terra. Un cammino a ritroso, ripercorso non da soli, però, ma alla luce della Parola e della grazia di Dio, di quel Dio il cui amore è infinitamente più forte del male del mondo, la cui provvidenza e misericordia ci hanno visitato salvandoci da noi stessi, dalla nostra mediocrità, dal nostro peccato, dando un senso pieno, una meta eterna al nostro quotidiano pellegrinare. È questa una delle verità più consolanti della fede cristiana: essa libera dalla tremenda angoscia in cui l’esistenza del male, in forme tanto orrende nella storia, getta l’uomo che riflette sull’avventura umana, la quale sembra, a volte, tanto tragica e tanto insensata.
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