Le fornicazioni carnali di Don Miguel e quelle letterarie di Lubicz Milosz
La Festa del Teatro di San Miniato è tornata a casa dopo il breve esilio pisano dello scorso anno. Sono note le curiose vicende di questa manifestazione del «Teatro popolare cristiano», sorto per iniziativa di Giuseppe Gazzini nel 1947 in una cittadina che ha per patrono San Genesio, sommo protettore del teatro. Nessuno è profeta in patria, neppure il suo patrono oltre a coloro che ne sono ispirati e perciò durarono lo sdegno e la tenace opposizione di chi scorgeva la coda di satanasso spuntare fin dai copioni che cantano le glorie del Cielo.
Ora la «Festa» è rimpatriata, l'aria le si è intenerita attorno, come attorno ad un orfano. Il suo iniziatore è morto, e dall'alto dei cieli, accanto a San Genesio, garantisce anche in terra della sua creatura. Achille Fiocco l'ha commemorato oggi, commosso e commovente (vi erano molti vecchi amici di Gazzini, v'era Franz De Biase, v'era Paolo Grassi), rifacendo la strada di un uomo che voleva anzitutto uscire incontro all'uomo.
Gazzini aveva una chiara idea della missione teatrale. San Miniato «vuole prendere il popolo e metterlo di fronte al fatto Teatro — scriveva nel '49 —. Il popolo è in piazza, nelle chiese, nelle fabbriche. Noi andremo in piazza, nelle chiese, nelle fabbriche». Siamo in molti d'accordo con lui, cattolici e non cattolici. Come quando fin dal '51 sosteneva la necessità di teatri comunali di prosa non solo per le grandi ma anche per le piccole città, che avrebbero dovuto perciò consorziarsi e organizzarsi. Gazzini sentiva la necessità di entrar nel vivo del mondo, voleva testi moderni che interpretassero la «nostra convulsa sofferenza di ogni giorno». Corrisponde a tale esigenza il testo scelto ora?
Questo «Mistero», questo Miguel Manara fu scritto da Oscar Vladislao de Lubicz Milosz cinquantanni fa all'incirca. L'autore lituano ne aveva quaranta, e il suo nome brillava da tempo nei cieli algidamente appassionati del simbolismo. La sua patria era lontana, già leggendaria nel ricordo. Aveva conquistato il diritto di cittadinanza francese fin nel 1899, a ventidue anni, con Le poème de la Decadence a cui era seguita sette anni dopo una seconda raccolta di poesie: Les Sept Solitudes.
Ma le inquietudini della sua raffinatezza andavano oltre i tormenti dell'arte; forse rasentavano il rimorso per un «terribile, insaziabile amore dell'uomo» che esigeva di essere appagato. Anche una visione essenziale e cioè aristocratica dell'uomo può condurci al misticismo letterario che non cessa per questo di essere sincero. Alla ricerca della patria ideale dell'amore, superando d'un balzo le struggenti vicissitudini terrene, il nostro autore vuole ancor più da se stesso: una rigida disciplina ortodossa. Non si possono pretendere ovviamente da un simbolista concessioni o indugi veristici; ma il distaccarsi dalla realtà emblematica, per usarla come strumento o involucro di una verità trascendente è già un superamento perfino imprudente. Imprudente per chi lo considera eretica evasione dall'arte, naturalmente «pura».
Il nostro autore riportando il mito di Don Giovanni alle dimensioni storiche delle vicende terrene (e celesti) di Miguel Manara teneva a mente anche o specialmente se stesso. La dissipazione del grande peccatore Miguel, per cui era smisurata sciagura perdere Satana e masticare «l'amara erba sullo scoglio della noia», è pure quella delle squisitezze letterarie che spregiano l'uomo dimenticandolo; quella di un falso concetto della bellezza, e dell'appagamento che rifuggendo l'angoscia precipiterà nel tedio della soddisfazione. Le fornicazioni di Miguel-Don Giovanni non erano più peccaminose di quelle letterarie di Lubicz Milosz. Così ci pare di capire in questo lungo atto di contrizione e di fede; e perciò parlammo di rimorso: remoto, profondo che si andrà chiarendo alla «voce terribile di innocenza» della trionfatrice Creatura — cioè di Jeronima per Miguel.
Miguel è maturo alla verità, perché consapevole del tedio della vita. Il tedio è frutto dell'inganno, poiché la vita è ricchezza, lotta, amore. Anzitutto amore. Non quello dongiovannesco che si smarrisce in un monotono e disperato piacere: ed è contraffazione ingiuriosa, inganno dello spirito della terra; sopraffazione della Creatura, la quale invece deve essere di guida alla salvezza. Infatti l'amore — che lega l'anima — di Jeronima sveglia Miguel dall'inganno, lo prende per mano, lo salva «dal diluvio delle tenebre». La fanciulla morendo gli aprirà infine la prima breccia verso Dio, coronando la propria missione.
Dalla riva di quel sepolcro Miguel parte per la conquista di Dio. La penitenza che è superamento, non dolore ma ancora amore, la lunga pazienza alimentata dall'eternità, l'umiliazione che vieta di «inventar preghiere» ma vuole litanie «vergini di pensiero e spoglie di ragione» e fra le quattro mura «d'eternità» della cella mutano il dolore e l'odio in fantasmi, li precipitano nel nulla. Ora si parlerà a Dio non più di se stessi ma dell'uomo: si diverrà strumenti di Dio, si ridiscenderà dal cielo alle creature, rifacendo il cammino che dalle creature condusse al cielo, si ridonerà alla terra centuplicato l'amore che se ne trasse nell'ascesi. Le leggi della ragione saranno ancora negate, non più per contrizione della vanità umana ma per il naturale espandersi della potenza divina attraverso il perfetto tramite dell'anima rigenerata: il miracolo ne sarà la più semplice dimostrazione.
Questo mistero ha una bellezza cristallina, scintillante di immagini fra cui si annidano talune ancora viziate da compiacenze troppo letterarie — così come l'ombra del peccato insegue il peccatore redento. La sincerità dell'autore è non solo indubbia ma evidente, anche nel suo sforzo per conservare calore umano a parole e personaggi troppo tentati dalla metafora. S'è vista la sua provenienza artistica e dunque quanto andiam dicendo è perfin superfluo. Dobbiamo aggiungere che nell'ultimo mezzo secolo i conflitti con Dio — per la sua conquista — hanno avuto carattere e svolgimento molto diversi. Si partiva da bassure ben più profonde e fangose, e tutt'altro che emblematiche. Era l'assalto di una corte dei miracoli, di anime mutilate dalle colpe più — come dire? — plebee, miserabili, terribilmente disgustose. La lussuria è peccato già decantato, nobilitato dal tedio, o smussato dall'incoscienza e per assumere responsabilità fondamentali deve contare su una buona rendita — anche intellettuale. Abbiam visto invece pezzenti urlare invocazioni che parevano bestemmie, o bestemmie che erano invocazioni durante l'ultimo mezzo secolo.
È inutile elencare i narratori e i commediografi cattolici francesi di questo tempo, e dei nostri ricorderemo Betti, che qualche critico, ritenuto ahimè autorevole, giudicava un semplice collezionista di panni luridi, di quelli che diffamano gli italiani all'estero. Nei personaggi di tali autori la fame di Dio ha perduto spesso ogni decoro, ha smarrito il rispetto al linguaggio liturgico, stenta e non riesce sempre a trasformar la sofferenze in metafora. Il misticismo diventa per loro un lusso terribile, trascinandosi come fanno lungo mille rigagnoli fangosi, e sanguinosi, E dopo essersi dibattuti fino alla disperazione estrema, arrivano stramazzando appena a toccare o a scorgere la soglia che Miguel ha già varcata alla prima scena e oltre la quale si ode la sua voce preziosamente adorna delle gemme della grazia. E noi fatichiamo a contenere la bellezza di queste parole... le ammiriamo ma il pensiero ci resta al di là, fra la folla miserabile che esprime il dolore, l'angoscia, l'immeritata speranza del nostro tempo.
Miguel Mattava è opera squisita ma di una vita non più nostra: nonostante la suggestione violenta di una regia come questa di Orazio Costa Giovangigli che riconduce la fantasia barocca al misticismo macabro, alle allucinate esaltazioni. Anzi: i suggerimenti di un tardo e già impegnato simbolismo francese portato qui a confluire nel minaccioso barocco spagnolo sembra abbiano rivelato al regista stesso il perché di certe sue tormentate deformazioni che altrove sconcertavano e perfino irritavano (si pensi alla Favola del figlio cambiato). Qui la crudeltà acquista il senso di una feroce contrizione, una intenzione precisa, una rispondenza immediata nell'autore e nel pubblico. Ed è nella cornice intorno all'agghiacciato protagonista che tale scoperta si libera e si arricchisce. Stiamo pensando soprattutto ai diabolici « spiriti della terra » che Costa ha moltiplicato, frantumandone e riecheggiandone le voci e al loro sinistro accompagnare le parole umane con nacchere risuonanti come ossa di scheletro.
Il fervore di Tino Carrara è riuscito a smuovere Miguel Manara dalla immobilità a cui l'ha costretto una volontà di edificazione; il generoso calore e la straordinaria bravura dell'attore sono riusciti a sgelarlo, fin a riawicinarcelo. Ma è il personaggio che vive di riflesso fra lo specchio del peccato e quello della virtù. Quanto più mosso, vero, psicologicamente agile, per esempio, l'Abate; personaggio di una sola scena che tuttavia compendia l'opera, deve dar gusto a interpretarlo e l'ha fatto splendidamente Gianni Santuccio. Jeronima, anche lei appare in una scena sola, ad esprimere la grazia spontanea della purezza, il tramite soave ma implacabile, fra la colpa ed il cielo, ma lei pure insidiata da impegni didascalici. Ilaria Occhini ha interpretato questa parte con grande delicata finezza pur non essendole congeniale.
Molti altri bravi attori hanno partecipato allo spettacolo: come Manlio Busoni, Davide Montemurri, Loris Gizzi e quegli «spiriti della terra», di un estro da tetre maschere della commedia dell'arte. Mario Chiari ha accordato sobriamente il disadorno palcoscenico e le sue «macchine» con la chiesa del SS. Crocifisso lasciandola imporsi su ogni artificio scenico. I bellissimi costumi di Maria de' Matteis hanno grande efficacia emblematica nel contrasto, ad esempio, fra gli «uomini vestiti di colori» e quelli in saio e gli spiriti che riflettono la terra. Raffinate musiche di Roman Vlad. Il successo è stato pieno e vibrante.
Massimo Dursi, Il Resto del Carlino, Bologna, 23 Agosto 1962
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