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La recensione di Paolo Emilio Poesio
 

La recensione

 

Il fiore sotto la scure

L'edificio del Seminario, che domina scenograficamente la piazza omonima di San Miniato trasformata in luogo scenico per la prima volta in trentun anni di vita dell'Istituto del Dramma Popolare, ha la facciata singolarmente decorata di vasti medaglioni e di iscrizioni latine: una di queste suona, nella traduzione fattane da don Luciano Marrucci in un prezioso e finissimo volumetto fuori commercio, così: «Diventiamo credibili se ciò che promettiamo con le parole lo adempiano con le opere».
Nessun motto potrebbe meglio adattarsi allo spettacolo realizzato per la trentunesima «festa del teatro», spettacolo che rievoca una delle pagine più drammatiche e più altamente spirituali1 del dissenso nella Germania nazista. "La rosa bianca" di Dante Guardamagna — un copione nato su commissione e nutrito di documenti storici fatti rivivere drammaturgicamente — è infatti la narrazione di come alcuni studenti tedeschi, a Monaco, tentarono, rifiutando la violenza, appellandosi a ideali ecumenicamente cristiani, di provocare una reazione popolare all'orrore del regime hitleriano.
IL TEMA DI FONDO
Tentativo finito con l'arresto dei cospiatori, la loro condanna a morte pronunciata da un «tribunale popolare» presieduto da Roland Freisler, la loro decapitazione per mano del boia. Più d'uno fra i lettori ricorderà che la storia dei due fratelli Scholl, Hans e Sophie, dei loro compagni di studio, del professor Kurt Huber, fornì materia a uno sceneggiato televisivo in diverse puntate di mano dello stesso Dante Guardamagna: il quale, tuttavia, ha qui impresso altro ritmo, altro taglio al dramma che viene ad essere concepito come una trasfigurazione del processo, dando modo agli avvenimenti di essere rappresentati frammentariamente, fra l'incalzare dell'atto di accusa e la materiale evocazione della nascita e dello sviluppo del movimento rivoluzionario chiamato appunto «La rosa bianca».
Il tema di fondo è la nonviolenza opposta alla violenza: la fede dell'uomo nell'uomo, il rifiuto delle vittime a farsi uguali ai carnefici, la testimonianza che si può dare un senso alla propria morte e che morire non vuoi dire di necessità essere sconfitti. («Diventiamo credibili se ciò che promettiamo con le parole lo adempiamo con le opere»). I giovani della «Rosa bianca» che sapendosi scoperti dalla Gestapo rifiutarono la fuga ed anzi vollero che il loro arresto fosse il più clamoroso possibile perché tutti sapessero, perché tutti comprendessero, divengono così personaggi di un'attualità sconcertante: la loro tesi che opporre violenza a violenza vuoi dire solo estendere un mostruoso contagio (e non a caso il regista, Giulio Bosetti, ha sottolineato nel grandioso finale la validità di questo tema) supera il fatto contingente e ci fa travalicare il confine degli anni.
I cospiratori, nel dramma, sono la realtà, la verità spoglia e disarmata, dolorosa e sofferta: il giudice, l'istrionico Roland Freìsler, è il teatro, è il meccanismo di chi recita una parte sapendo di poter essere e regista e autore di ciò che avverrà. Finzione-follia, allora: gioco esasperato di chi vuole stare sotto la luce dei riflettori a tutti i costi, ammantato nella toga sanguigna e ignora che gli altri, i giudicandi, i giudicati, saranno la storia.
Stendere un testo come questo della "Rosa bianca" implica dei rischi: si può scadere nella fredda cronaca sceneggiata e si può slittare nella retorica enfatica. Direi che Guardamagna ha saputo evitare l'uno e l'altro pericolo anche se la prima parte del copione può apparire — e mi è apparsa — molto didascalica: ma nella seconda parte, a mio avviso la migliore, niente retorica e una controllata toccante vena di umanità. Basterebbe il colloquio di Huber con i giovani, o ancora l'arringa dello stesso Huber in tribunale a dimostrare come i documenti storici possano trasformarsi  in  potente   materia   teatrale  pur   senza scadere nel falso lirismo o nel pistolotto moralistico.
BREVI APPARIZIONI
Certo Bosetti ha lavorato da uomo di teatro su questa materia di teatro: e qui concitando i movimenti (con l'ausilio di Angelo Corti), qui facendo intervenire onde musicali di un trionfalismo pletorico e aggressivo, là facendo risuonare la voce di Hitler, altrove giocando sui toni dimessi e quotidiani e sempre regolando in un contrappunto preciso lo scontro fra il mattatorismo guitto di Freisler e la misura severa di Huber, ha ottenuto un'unità stilistica rilevante.
Merito, ovviamente, anche degli attori che, nel felice impianto scenico di Sergio d'Osmo, ispirato alle livide torrette dei lager e nudo nell'essenzialità del materiale mobile, hanno dato il meglio di sé: Franco Mezzera con una recitazione tutta generosa, tutta scoperta, estrosa e allucinante ha dato vita al giudice Freisler, mentre Tino Schirinzi — che mai avevo tanto apprezzato come questa volta, pur apprezzandolo da anni — ha trovato per Huber (e per le incarnazioni che in Huber confluiscono) una tastiera di toni caldi, commossi senza la lacrima a fior di ciglio, incisivi senza durezza, pacati quanto fieri, robusti quanto delicati. Una prova eccellente.
Giulio Bosetti ha riservato per sé due brevi ma significative apparizioni nelle vesti sacerdotali del vescovo di Munster, Marina Benfigli ha recato vigoria alla simbolica figura della Donna, Alberto Mancioppi ha rivestito con sicurezza i panni di Hans Scholl e Valentina Montanari quelli della palpitante, coraggiosa Sophie. Ma con loro vanno ricordati Mauro Goldsand, Guglielmo Paialunga, Ubaldo Lo Presti, Giorgio Favretto che è stato un imperioso gauleiter, i ragazzi Luca Pucci e Silvia Settecasi, Giancarlo Santelli. Belle le musiche di Giancarlo Chiaramello.
Molto pubblico — parlo dell'anteprima cui ho assistito lunedì sera — e molti applausi. La «Rosa bianca», fiore spezzato dalla scure insanguinata, ha portato di nuovo, anche in una pioggia di volantini discesi sugli spettatori, la sua parola di fede nella non violenza in un mondo che sembra una volta dì più contagiato dalla violenza.

Paolo Emilio Poesie La Nazione, Firenze, 27 Luglio 1977




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